Il peggio deve ancora venire: I PIL di “Metal Box”

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La metamorfosi del punk nella new wave e nel post punk è un dato storico ed assodato.
Da quella ruvidezza fatta di pochi accordi in croce ed addirittura dall’assurgere a manifesto del non saper suonare è nato un mondo che si è frantumato in mille rivoli destinato ad influenzare i successivi decenni di musica più o meno alternativa.
Ciò ha dato origine a quello che è, insieme all’era tra sixties e seventies, il periodo più creativo della storia musicale.
Ma chi avrebbe potuto immaginare che sarebbe stato proprio uno degli artefici della rivoluzione punk ad operare all’interno di un naturale cambiamento ancora più radicale? Una sorta di fotosintesi clorofilliana che ha generato un abisso di paranoia e di paesaggi desolati da incubo post umano.
Dire che Johnny Rotten muta pelle in John Lydon non è proprio esatto: egli si è svestito dei panni dell’istrionico punk per ritornare alla sua autentica personalità, a partire dal recupero del suo vero nome.
D’altra parte l’avventura Sex Pistols è stata una meteora studiata a tavolino, che era già destinata a schiantarsi e non solo per la tragica morte di Syd Vicious.
Quindi decide di dare vita ad un suo progetto d’avanguardia dal nome di Public Image Limited, acronimo PIL. e recupera il suo antico amore per il krautrock (Can soprattutto) e per artisti fuori dagli schemi come Captain Beefheart creando una commistione fra queste influenze e le nuove avanguardie post punk orientate al dub, all’elettronica ed all’ampliamento dello spettro cromatico della new wave.
La band entra di diritto nel novero dei gruppi di punta più avanti e più innovativo del genere come i Wire, i Fall, i Killing Joke, i Birthday Party.
Tuttavia occorre menzionare altri due personaggi che hanno dato forma e sostanza al sound PIL: il primo è il chitarrista Keith Le Vene, un fine cesellatore della sei corde che ha creato una tecnica chitarristica tagliente ma nello stesso tempo capace con i suoi assoli a scolpire luminose circolarità sonore. Basti pensare che ha influenzato tra l’altro The Edge degli U2; il secondo è uno dei bassisti più originali e più laterali mai apparsi in sessant’anni di rock: Jah Wobble, uno che è andato oltre le potenzialità del basso elaborando un cupo e tetro sound dub, trasformando la variante elettroacustica in un qualcosa di plumbeo ed adatto a una nebbiosa suburbia urbana londinese.
D’altra parte senza i PIL non avremmo avuto il post-rock degli anni novanta e parecchie derive nell’elettronica da quella più dance oriented a quella di ricerca.
E’ necessario avere la discografia completa fino a This Is What You Want; poi inizia la parabola discendente con dischi poco ispirati fino allo scioglimento nel 1991.
Album è altalenante nonostante la presenza di grossi calibri come Ryuchi Sakamoto, Ginger Baker, Bill Laswell e Ravi Shankar, personalità musicali di spicco che però messe insieme fanno un lavoro a macchia di leopardo senza fare il felino.
Invece pollice verso per Happy, 9 e That What ls Not, fiacchi, loro pallida copia che consiglierei solo a dei fan completisti.
Idem per le release dopo la reunion del 2012, dischi che nonostante qualche guizzo non hanno lo smalto, marchio di fabbrica.
Partiamo dagli esordi: 1978, First Issue, legato in molti episodi alle ruvidezza punk ma già proiettato verso il futuro.
Ma è con Metal Box che abbiamo la mutazione: un tornare al passato, rielaborarlo per poi costruire un suono futuribile. E’ un lavoro alieno già a partire dal packaging: una scatola di metallo rotonda che ricorda quelle che erano le “pizze”, ovvero le i contenitori che contenevano le bobine con le pellicole dei film. All’interno tre dodici pollici che girano a 45 giri.
Il richiamo cinematografico non è proprio casuale perché il suo ascolto è pari all’assistere alla visione di una pellicola introspettiva che descrive l’alienazione metropolitana con lo sguardo di un sofferente predicatore in preda al delirio paranoico di chi non riesce ad adattarsi a questa
post modernità, la quale si risolve in una post umanità in procinto di essere travolta da una catastrofe apocalittica.
È il vaneggiamento dell’Essere che si scontra con le proprie paure, o meglio con le sbarre della prigione della propria claustrofobia. E’ la disperata (basta sentire il cantato) paranoia di chi non riesce ad adattarsi a questo sistema è vuole trovare una via d’uscita, ma è anche consapevole che la sua è una ricerca vana. Ed allora instaura una sorta di danza davanti a questi alti di scenari di desolazione urbana, fatta di fabbriche in rovina ed edifici che sono dei conglomerati senz’anima, contenitori di un’umanità stilata e senza più valori, sradicata ed alienata. Il peggio però doveva ancora venire dato che siamo all’alba dell’era della Thatcher.
Metal Box è un gelido e agghiacciante furore, che assume i toni tragici di un grido precipitato nel vuoto, fra taglienti lame di chitarra, oscuri giri di basso, sonorità che rasentano il drammatico (post) realismo dell’industrial. Ma come questo genere è in grado di evocare scenari da finis mundi, ovvero un arco che dalle algide geometrie dei Cabaret Voltaire arriva al folk apocalittico dei Current 93, senza essere legati musicalmente né ai primi né ai secondi.
Quindi quello che conta è la rabbia da urlare in un presente senza un domani.
Ma il grido non è munchiano, è oltre l’artista medesimo.

Ora l’analisi per ogni singolo brano.

Albatross: ci si precipita nel gorgo di un oscuro dub evocato dal tenebroso basso di Jah Wobble, cui subito la lama tagliente della chitarra di Keith Levene trafigge e squarcia il velo di una solitudine cittadina che scorre come uno zoom in bianco e nero. È la voce di Lydon è quella di un muezzin che predica scenari apocalittici attraverso una litania di una psiche malata. E così per oltre dieci minuti e mezzo.
Memories: i toni si fanno meno cupi in favore di un’accentuata farneticazione.
Vi si scorge una certa volontà di riscatto.
Swan Lake: il titolo evoca il Lago dei Cigni di Tchaikovsky ma dell’armonia del Grande compositore russo, c’è traccia né degli uccelli né delle pozze d’acqua.
Questa è una discesa a precipizio in un Maelstrom della psiche completamente travolta dalle proprie paure. E il suono evoca frese metalliche e sventolii di lamiere di alluminio al vento.
Poptones: siamo dalle parti di una massiccia scultura sonica cui il battito meccanico è dato dalle pulsazioni del basso dub. Ma l’elemento che predomina sono ancora le corde di Levene che fa un lavoro di cesello. Questa traccia è una nota di diamante che brilla di una luce cristallina nel buio esistenziale.
Careering: gli Scorn devono averlo mandato a memoria. Sibili di elettronica che evocano sensazioni di vuoto e tonfi percussivi micalizzati.
No Birds: l’intonazione a volte si trasforma in gorgheggi che languono pari a dei latrati agonizzanti.
Graveyard: si precipita in un incubo metropolitano. Sembra una danza che proviene dall’oltretomba.
The Suit: una canzone chiave che si fonda su una struttura scheletrica e minimale imperniata su un ipnotico giro delle quattro corde. Siamo nella noia esistenziale recitata da un’extraterrestre che declama da una base spaziale. Il testo verte sull’omologazione e sulla triste e mortificante adesione a un conformistico schema comportamentale.
Bad Baby: il punto di forza qui è il lamentoso e delirante madrigale su scansioni robotiche.
Socialist: un vero e proprio cambio di rotta. Il basso è un tremolante e nervoso assolo che rimanda a coordinate Joy Division-Bauhaus-Gang of Four. Mentre la chitarra e l’elettronica si lanciano in riverberanti wah wah e minimali frequenze. Siano dalle parti di una proto-techno wave dance che a volte ricorda Liquid Liquid e A Certain Ratio. E’ strumentale.
Chant: psicotico funk-wave di pura guerriglia urbana (infatti l’ispirazione proviene della violenza delle gang di strada). Si canta a più voci: quella di Lydon
al solito declamante e quella di Wobble che sputa sillabe in caduta libera come un invasato che vuole incitare qualcuno.
Radio 4: la conclusione in una melodia strumentale sintetica con aperture chiesastiche che idealmente vuole rappresentare una catarsi dopo un lungo film. L’aspetto sinfonico vuole invitare ad una calma esistenziale ed a una meditativa pace dei sensi, per quanto effimera. Come se il tutto sfociasse in un pianto liberatorio.

Marco Fanciulli