Power, Corruption & Lies è il secondo album dei New Order.
È un disco di transizione dal precedente LP Movement, ancora profumato di atmosfere alla Joy Division al successivo Low-Life, opera di perfezionamento del loro sound.
Lo si potrebbe definire come una tappa tesa a estendere la longa manus del post-punk e del suono dark, nel synth-pop fino alla rave culture.
Reduci dallo shock del suicidio di Ian Curtis che si impiccò nel bagno di casa sua, per reagire al trauma, decisero di fare un bel reset e di rimettersi in gioco ripartendo da zero, a partire dal cambio della ragione sociale.
E così Peter Hook, Bernard Sumner e Steve Morris, i tre superstiti, reclutano la tastierista Gillian Gilbert e formano i New Order.
Non una prosecuzione del discorso interrotto quindi ma un percorso nuovo ed indipendente. Nella loro prima uscita emerge chiaro l’intento di cambiare rotta, infatti le sonorità si alleggeriscono in favore di una new wave più algida che ricorda gli Ultravox prima maniera.
Vi è una propensione ad atmosfere più distese e rilassate, meno nevrotiche, meno dense di inquietudini.
È una conversione al verbo dei synth contaminato con le movenze robotiche dei Kraftwerk.
Successivamente pubblicano l’EP Dreams Are Over, con l’epocale Blue Monday che spezza via ogni rimasuglio di legame col passato.
Poi tocca alla release oggetto della nostra analisi, che è anche la cartina di tornasole del mutamento antropologico della loro città, Manchester, che stava passando da grigio centro industriale, a Mecca del divertimento notturno e a centro nevralgico di produzione del cosiddetto Madchester Sound. Non a caso i Primal Scream prenderanno come modello di riferimento il nostro gruppo da questo momento in poi.
Ma i New Order però fanno la differenza sporcando il sound rigoroso e calibrato di matrice techno pop teutonica, anche grazie alla compresenza di strumenti analogici ed elettronici: pensiamo alla convivenza fra batteria tradizionale e drum machine, oppure al ruolo primario svolto dal basso di Peter Hook, costruttore di linee melodiche.
Creano una medietà fra la fisicità del rock e la liquidità dell’elettronica.
Ma c’è un altro aspetto da considerare: cercano di nascondere dietro alle solari escrescenze dei sintetizzatori, il male di vivere esistenziale della loro epoca. L’Inghilterra, soprattutto dal punto di vista sociale, non stava attraversando una golden age.
La politica di Iron Lady Thatcher stava mietendo vittime e portando numerose famiglie sul lastrico; c’era la questione spinosa della Falkland, alla quale si narra, tra mito e leggenda, che sia stato dedicato il testo di Blue Monday.
Diversamente dall’edonismo di cartapesta della Londra di quegli anni ed al guscio vuoto della cultura yuppi, è proprio nei centri industriali come Manchester e Liverpool che si stavano vivendo situazioni di crisi e di malcontento acuto (fino a sfociare nella violenza con l’esempio più tragico dei fatti dell’Heysel di Bruxelles).
Ecco, la psicopatica sofferenza personale come nei Joy Division, lascia posto ad un disagio collettivo esistenziale, un corale sentire di una generazione che cerca di alleviare i propri malesseri con le movenze della danza.
E qui entriamo nel cuore della questione: il sentimento comune di singoli soggetti che si sentono abbandonati a sé stessi ed in mano a un potere che, come recita il titolo, è corrotto e si basa solo sulle menzogne.
Siamo ben lontani dal cosiddetto new romantic, espressione per lo più di una cultura di plastica da baraccone che produce cloni di esseri allevati come polli in batteria.
Qui serpeggia la perdita di punti di riferimento. E’ proposta una musica elettronica ma dalla forte componente umana ed emotiva.
Ora passiamo in rassegna ogni singolo brano.
La copertina rappresenta una natura morta floreale dipinta secondo uno stile crepuscolare tra fine ottocento e primo novecento, a tinte vivide ma non troppo accese. In alto a destra un codice a barre con una sequenza che è quella dell’alfabeto binario, dove si alternano i colori naturali, quelli dei fiori, a quelli creati a computer, appartenenti al mondo digitale.
Elementi cromatici e lettere insieme formano il nome dell’album. L’autore è il designer Peter Saville che ha concepito il tutto, basandosi sul dipinto del pittore francese della seconda metà del 1800, Henri Fantin-Latour, celebre proprio per le sue still lifes.
Age Of Consent: basso dalle suadenti linee, cantato colmo di brezze solari, tastiere perse in celestiali onirismi, chitarra quasi country. I Joy Division che subiscono un processo di inamidarsi e raggiungono i Cure. Un brano di grande respiro che invade l’aria circostante come un cristallo di luce, trasparente e adamantino, poeticamente come l’acqua di sorgente che sgorga da una fontana.
We All Stand: adesso il mood s’incupisce; angolari geometrie dal 4 corde. Il tono della voce cambia e diventa più paranoico ed il testo dice tutto: “la vita continua all’infinito in questa fantasia di reale“, chiaro riferimento esistenzialista a questo grande bluff che si chiama moderno vivere. Poi la ripetizione della frase “at the end of the road“: alla fine della strada c’è sempre un soldato che aspetta, c’è del sangue sulla riva…
The Village: ci spostiamo verso territori sintetici. Non c’è un’influenza della hi-energy moroderiana come qualcuno ha detto erroneamente, ma un riferimento alle notti brave della disco di New York.
5 8 6: ora il gioco si fa ancora più serio perché entriamo nel campo della sperimentazione. Si comincia con quasi due minuti di metronomici colpi di drum machine e sghembi tonfi di tastiere dall’andamento zoppicante. Poi un vortice oscuro d’aria ed è subito uno sporcarsi con una muscolarità prossima all’ebm e un giro di basso in iterazione perpetua da trasformarsi in epica eroica.
You Silent Face: chi ha letto Le Regole Dell’Attrazione di Bret Easton Ellis, lo scrittore che meglio di tutti ha saputo descrivere la generazione anni ottanta, avrà trovato citata questa canzone. Con il suo chiaroscurale ghirigoro ritmico di sottofondo, è una profonda ballad malinconica. Nel contempo però è colma di quello spleen tipico degli eighties che nasce dal disincanto portato dall’età del riflusso. Uno dei punti più lirici del disco.
Ultraviolence: oscure note di chitarra dietro un martellante pulsare ritmico e bass rigurgiti accompagnati a lignee ed ipnotiche tessiture di quello che pare l’onomatopea di un gamelan indonesiano, costituiscono l’ossatura di questa robotica movenza synth-wave-dance.
Ecstasy: attraverso una spettrale voce filtrata, si crea un allucinogeno caleidoscopio sonoro nel quale l’elemento fisico si mescola con quello immateriale, il nitido e lo sfumato vanno di pari passo; è da questo corpo sonico si sprigionano sbuffi di euforia dopo una sbornia in acido.
Leave Me Alone: la chiosa. Qui la macchina è assente. Esiste solo l’uomo che è solo con il suo vissuto.
Marco Fanciulli