La sempre maggior diffusione delle intelligenze artificiali (I.A.) ha sviluppato un profondo dibattito nella comunità artistica circa la sua eticità, imponendo di ragionare sul concetto di reale autenticità della produzione artistico-culturale.
Stefano A034 della label/collettivo Rexistenz, ha condensato il risultato delle sue ricerche in un nuovo disco pubblicato da Stirpe999, che noi di Frequencies.eu abbiamo il piacere di presentare in anteprima, accompagnato da un focus speciale firmato da Stefano stesso.
Stefano A034: Nemmeno un anno fa, su alcuni gruppi Facebook dedicati all’arte procedurale e generativa, c’è stato un boom di pubblicazione di immagini generate con nuovi strumenti basati su algoritmi di Intelligenza Artificiale.
Non erano normali software, ma “notebook” condivisi sulla piattaforma Colab (di Google) che avevano accesso a processori grafici potenti in grado di fare calcoli che sul proprio computer non era possibile eseguire.
Collegandosi a questi notebook e modificando una serie di parametri si potevano eseguire una serie di celle di codice Python per trasformare un “prompt” (una richiesta testuale) in una immagine o, in alcuni casi, in una sequenza di immagini che poi potevano essere montate in un video.
Come per tutte le novità del mondo nerd c’è stata questa prima fase esoterica in cui il sapere era nelle mani di pochi smanettoni e quelli che, come me, si occupavano di immagine digitale ne sono rimasti inizialmente attratti e poi quasi ossessionati.
Il nome stesso di questi strumenti era irresistibile: VQGan+Clip, Disco Diffusion, DALL-E, RuDALL-E, GauGAN2, ecc.
VQGan+Clip, la prima applicazione di tipo text-to-image, è stata inventata da un’artista e matematica che si fa chiamare Rivers Have Wings e che sul sito Hugginface scrive: “We’re on a journey to advance and democratize artificial intelligence through open source and open science“.
Personalmente ho sentito il desiderio e la necessità di imparare ad usarla e, in un contesto in cui ancora non se ne parlava e c’era poca documentazione disponibile, ho deciso di dedicarle quasi tutto il mio tempo libero, per provare a produrre un video per uno dei brani che avevo appena finito e che oggi è il pezzo di chiusura del mio nuovo disco “Debris“.
Il processo che mi ha portato a creare quel video, composto di migliaia di frame fatti generare da quel nuovo strumento in grado di mixare stili, effettuare morphing tra immaginari opposti tra loro, rappresentare quello che gli chiedevo scrivendo dei “prompt”, è stato affascinante, entusiasmante. Ho avuto la netta sensazione che non stavo usando un tool, ma che avevo una specie di collega con cui collaboravo per ottenere un risultato.
Ho scoperto anche che spesso interpretava male le mie richieste e i suoi errori erano affascinanti perchè, oltre a offrirmi nuovi spunti creativi, introducevano quel “random” che ho sempre amato in tutte le forme d’arte digitale e che molto spesso rende tutto paradossalmente più umano.
Allo stesso tempo è stata anche un’esperienza nuova e inquietante.
Avevo fatto io il video? O lo aveva fatto l’IA?
E mi chiedevo quanto tempo mancasse al momento in cui l’IA potesse fare tutto da sola.
Pochi mesi dopo, in agosto, è uscita Midjourney, che produceva immagini iper-realistiche, in un decimo del tempo, senza doversi collegare a Colab ma chattando con un chat-bot su Discord.
Era più facile da usare e velocissima, ma stavolta si doveva pagare un abbonamento abbandonando il campo di trasparenza e condivisione del mondo open-source. Non ha reso pubblico il suo dataset, ha fatto accettare ai suoi utenti un disclaimer in base al quale si impossessava dei diritti di tutto quello che veniva da loro prodotto attraverso il suo utilizzo, era la prima ad arrivare alla massa in quanto prodotto commerciale, la prima a creare hype.
Seguita a ruota, pochissimo tempo dopo, da Chat-GPT, che invece di generare immagini scriveva testi, ha iniziato a far parlare di sé diventando il nuovo “argomento del giorno”.
Il dibattito ha invaso la rete ricalcando temi che sono stati affrontati ogni qualvolta ci sia stata un’innovazione che incuteva timore, dalla nascita della fotografia, a quella dei software di fotoritocco fino a quella dei campionatori nel mondo della musica.
In molti hanno individuato un nuovo nemico che minava il sacro diritto d’autore, rendendo l’argomento noioso ed incentrato solo sul modo in cui questi algoritmi venivano istruiti (usando dati altrui senza averne chiesto esplicito consenso). Cosa che, tra parentesi, abbiamo reso possibile tutti noi, per anni, con un uso acritico di smartphone e social networks.
Fortunatamente mi sono trovato a discuterne con amici che hanno, come me, una visione diversa del concetto di proprietà intellettuale e che in questi strumenti vedeva sicuramente un’ennesima affascinante evoluzione degli strumenti digitali, ma anche un preoccupante passo avanti verso un uso sempre più acritico e bulimico di quei mezzi.
Ci siamo abituati ad accettare disclaimer e privacy policies senza leggerli, ci siamo abituati a usare in modo sempre più confidenziale sistemi gratuiti che da noi volevano solo una cosa: le nostre interazioni, i nostri like, le nostre immagini, i nostri link, le nostre scelte, la nostra posizione, in poche parole i nostri dati.
E oggi, con questi nuovi strumenti, abbiamo pigiato ulteriormente l’acceleratore per andare sempre più veloci in una direzione che critichiamo e temiamo incapaci di sterzare o fare marcia indietro.
Tra gli amici con cui ho discusso di queste tematiche c’era Fabrizio, di Stirpe999, con cui abbiamo pensato di pubblicare questo disco e farlo utilizzando alcuni di questi nuovi tool, per provare a spostare il focus su quella che è la nostra visione comune su questo periodo storico, iniziato da diversi anni, in cui il bombardamento di contenuti multimediali propinato dai social network che ci vede tutti attori e tutti vittime, ha nuovi elementi da tenere in considerazione.
Tornando a Midjourney, lo strumento che è entrato a gamba tesa sui nostri schermi, oggi milioni di persone stanno pagando uno strumento di cui non conoscono il funzionamento, per produrre una quantità insensata di immagini, spesso senza avere né idee, né una cultura o un gusto personali, né qualcosa da dire. E poi le mettono online, tutte quante, senza senso critico, senza contestualizzarle o selezionarle. Molta gente ha pensato pure di farci soldi con gli NFT (si definiscono NFT-artists, sigh).
Ed è tutto al passo coi tempi: moltissimo di quello che viene buttato in pasto alla rete è semplicemente inutile, perché non aggiunge niente e crea solo rumore.
Ma la nostra capacità di assorbimento è limitata e se veniamo bombardati continuamente da contenuti sempre più inutili e veloci perdiamo la capacità di discernere quello che ci interessa davvero fino a non capire nemmeno più cosa ci piace e cosa non ci piace.
In pratica: troppe parole, troppi video, troppa musica, troppe immagini, troppe notizie, troppi link a velocità stroboscopica. E così il consumo di quasi tutte le forme d’espressione, o più in generale di comunicazione, è diventato bulimico.
E’ tutto facile, a portata di click, consigliato da Alexa o da qualche sistema di targetizzazione, skippabile, usufruibile ovunque.
Domanda e offerta si alimentano a vicenda in un processo che porta inevitabilmente a un abbassamento della qualità di quello che si produce e dell’interesse in quello che si consuma, a favore di una insensata quantità.
Le IA sono solo un ulteriore step forward in questo processo. Difficile non partecipare al giochino perverso: chiunque si sia iscritto a un social network, si sia affidato a Siri/Alexa per fare una ricerca o a un navigatore per trovare un indirizzo o a Spotify per scoprire nuova musica, ha alimentato qualche algoritmo affamato che non voleva rubarci il lavoro, voleva solo strabiliarci con nuovi effetti speciali, nuove comodità, nuove possibilità, facendo guadagnare qualcun altro.
Senza tutte le nostre interazioni non ci sarebbe stata nessuna intelligenza artificiale.
“Debris” è velatamente provocatorio, vuole essere un mio/nostro piccolo contributo alle riflessioni su questo tema. Sfrutta quello che ho definito “argomento del giorno” per parlare di questa bulimia di contenuti cominciata inesorabilmente diverso tempo prima dell’arrivo delle IA e che le IA non fanno altro che accelerare.
E’ un disco che vuole riflettere su questa smodata e insensata quantità di informazioni digitali che bombarda cervelli sempre più pigri e sempre più incapaci di apprezzare quello che consumano, un disco digitale che viene messo online in una timeline frenetica di contenuti che cercano tutti di attirare l’attenzione creando un rumore di fondo sempre più assordante.
“Debris” cerca di essere colonna sonora di uno scenario in cui non c’è nessuna Sarah Connor che ci salverà. Uno scenario in cui l’uomo, che ha prodotto detriti da quando è nato, esce di scena lasciando solo i suoi detriti, appunto, i suoi debris.
La copertina e le immagini sono state generate con il supporto di Deforum Stable Diffusion.
Il video del brano “V” di “Debris” è stato prodotto con l’ausilio di VQGan+Clip.
Il video teaser è stato generato con l’ausilio di Gaugan.
La frase con cui abbiamo deciso di promuovere di questo lavoro non è il verso di una poesia umana, ma una frase di ChatGPT alla richiesta: “talk about humanity fading into debris” ha risposto così: “The remnants of humanity lay scattered among the ruins, a testament to our arrogance and neglect, as we dissolved into the debris of our own making”.
Redazione