Berlin CTM 2022 pt. II: Cut the shit, cut that mullet!

0
1184

Chi non si è mai sentito un newbie errante ed insoddisfatto, alzi la mano. Portarsi appresso l’ingombrante sensazione di non aver ancora trovato qualcosa in cui riconoscersi, aspirare a vivere in un posto in cui potersi esprimere liberamente, senza sentirsi giudicati.
In età adolescenziale, un semplice viaggio in una città come Berlino, voleva dire calarsi in situazioni inedite. Poter incrociare un contesto in cui sembrava sottinteso accettare il silenzio, la lentezza, il gozzoviglio, reclamando il proprio spazio nel mondo non in maniera irruenta, ma con placida consapevolezza, soddisfaceva quella spinta propulsiva iniziale.
L’incedere della storia non era riuscito a scalfire il fascino dei quartieri intorno al Mitte, come se tutti quegli spazi vuoti ed ariosi fossero stati in qualche maniera tutelati, preservati anche dopo la riunificazione.
Al calare delle tenebre, si finiva in qualche club buio ricavato da vecchie centrali elettriche in disuso o in qualche squat polveroso.
Le lunghe pause teutoniche venivano improvvisamente colmate, mentre si perdeva coscienza della dilatazione temporale che scandiva le nottate.

In realtà, le manacce dei palazzinari e dei grandi brand mondiali erano già pronte a picchiare senza pietà, con il beneplacito del governo tedesco e delle banche, aspettando il momento propizio per colonizzare aree incontaminate, mostrare la topografia disseminandola di non luoghi, cancellando la forte identità presente nel sottobosco – come già evidenziato nel profetico documentario “Berlin Babylon” di Siegert.
 Ma, inconsciamente, anche se non si viveva lì e non si sapevano più di cinque parole in tedesco, era molto facile sentirsi a proprio agio e connessi con il resto della metropoli, quasi come se si venisse aprioristicamente inclusi nelle iniziative locali.

Tutto risultava molto spontaneo e autentico, aree come Kreuzberg, Neukölln, Prenzlauer Berg, la prima parte di Lichtenberg e Friedrichshain sembravano un gigantesco atelier urbano a disposizione dei creativi che le popolavano.
E questi ultimi venivano accettati o, quantomeno, tollerati, con modalità riscontrate difficilmente in altre capitali europee.
Inutile dire che diventai dipendente (come tanti) dalla frenesia culturale da cui si veniva piacevolmente investiti, al punto di tornare più volte negli anni, a scadenze non regolari.
Molto probabilmente, i nostri frequenti viaggi favoriti dai voli low cost hanno parimenti impattato, insieme ad altri fattori, a cambiare tutto in peggio.
In compenso, ho avuto il privilegio di beccarmi la fase finale di tante esperienze musicali e sociali che poi sono state spazzate via, al punto da farmi sembrare la trasformazione berlinese come la versione macro ed efficiente delle pratiche di erosione civica che hanno alterato la vita culturale della mia città, Bologna.
L’eredità della guerra fredda, le romantiche distese desertiche figlie dell’abbandono, sono state rimpiazzate da nuovi palazzi, grattacieli, enormi ostelli per studenti, hotel di lusso.
L’urban sprawl ha generato nuovi quartieri e il potenziale della città è stato livellato, normalizzato, reso più accattivante per il turista yankee medio.
Gli organizzatori del CTM, sfruttando le possibilità che il fermento cittadino ha sempre offerto, si sono imposti come puntuali custodi delle tendenze e delle pulsioni artistiche che si sono susseguite in ambito audio-visual dal ‘99 ad oggi. Tutto ciò, senza mai tralasciare l’impatto sociopolitico che questo poteva avere sulla società (e viceversa).
Il tema di quest’anno, Contact, è stato il concept più accurato che potesse esserci dopo due anni di pandemia e di eventi continuati a singhiozzo. Quello che ci è mancato in questo lasso di tempo viene, finalmente, reclamato senza troppe remore, quasi a sancire un disgelo doveroso, incarnando l’enorme bisogno di decompressione post biennio Covid.

Dopo una prima parte (svoltasi tra fine gennaio ed inizio febbraio) con line up altrettanto ricca e meritevole, la seconda tranche, decisamente più rivolta al clubbing ,non ha quasi mai deluso le aspettative. 
Ha pure alimentato dubbi e ripensamenti, come da prassi. Perché questo è il bello dei festival più riusciti: rimettere tutto in discussione, nel giro di pochi giorni. Oppure, perché no, fare addirittura da spartiacque.
Quelli della Clubtransmediale hanno avuto l’immenso merito di avere intercettato, ancora una volta, la wave musicale che va per la maggiore in questo preciso momento storico. Mutare di pari passo con l’humus in cui sono inseriti (da sempre) senza svilirsi, non è impresa facile e da dare per scontato.

CAZZO, SÌ!


La scelta delle location


Dal gradito ritorno del Volksbühne al Revier Südost, nuova superba incarnazione del fu Griessmuehle. Per non parlare dell’Heimathafen Neukölln e delle klubnacht al Berghain che, nonostante nonsciaapiùquelloooinkuiiiicieranooooquelliveriiiidelatechnoooh, fa sempre un certo effetto quando lo si vede stagliarsi in lontananza. E, soprattutto, quando si varca nuovamente quella soglia. 
Difficile non emozionarsi al cospetto della commistione di odori che impregnano le narici: Funktion One che frizzano, popper, birrette Berliner, fumo. Ci si sente sovrastati dai mastodontici soffitti e dai muri scrostati, resi iconici grazie ai famigerati scatti di Wolfgang Tillmans e agli interventi dello Studio Karhard.


Space Afrika e Moor Mother


L’apatia come conseguenza estrema dell’incomunicabilità e della solitudine urbana, l’abbandono, le frustrazioni represse delle periferie mancuniane, la devastazione e i rapporti sociali ridotti all’osso. 
Poi la rabbia. Vivida, accecante, senza freni. L’incarnazione dello spirito hardcore passa per questi lidi. 
Visti in fila questi fanno male. Disincanto e ferocia, due live scarni, graffianti, pericolosi. 
C’è tanto bisogno di artisti che sparano in faccia la realtà, senza essere accomodanti.
Cazzo vuol dire black music? Questo è doomerism.


Sote & Tarik Barri

In questa performance ci sono caduto dentro. Saranno state le poche ore di sonno, sarà stato l’eccesso di Mate ingurgitata che mi ha rallentato invece di tenermi sveglio, ma lo stato di trance indotto dalle suggestioni di Tarik Barri, ha rappresentato uno dei picchi del festival.
Il lavoro sembrava volesse destrutturare ogni tentativo di visual art mai creato al mondo, mettendo insieme pattern inconciliabili, facendo poi deflagrare tutto quanto in dilatate spirali lisergiche. Un fuoriclasse. Impeccabile e puntuale il soundscape sonoro di Sote, già considerato a pieno titolo uno dei compositori più illustri al mondo, ancor più dopo l’uscita dello sbalorditivo “Majestic Noise Made in Beautiful Rotten Iran”.

Shapednoise

Quante direzioni ha preso la musica dell’artista palermitano di stanza a Berlino, nel corso degli anni. Quante evoluzioni fatte dagli esordi dark techno e dal primo LP sotto Hospital, passando per una miriade di collaborazioni e progetti: su tutti “The sprawl” con Mumdance & Logos, il memorabile EP “Apophis” condiviso con Black Rain, la creazione della avveniristica Cosmo Rhythmatic. Fino al sorprendente “Aesthesis”, nove pezzi per ridisegnare nuovamente la propria traiettoria sonora, incentrandola su un bizzarro tourbillon di dub, post industrial e bruitismo. L’eclettico act “Overweight Sub Mutations”, parte da queste coordinate. 
Noise abrasivo ai limiti del power electronics, intervallato da hip hop strumentale e bordate di wobble bass, colpiscono dritte allo sterno. Ci si dimena, sgorga il sudore, viene automatico abbandonarsi alla inarrestabile e accecante potenza. Un tripudio, una consacrazione.

Aquarian

La rivincita del geek. 
Il live presentato, “Ouroboros”, altro non è che la trasposizione del potente album “The Snake That Eats Itself”, commistione sonora di breakbeat e techno. Il nostro, essendo artista interdisciplinare, ha curato anche i visual proiettati. Questi ultimi, essendo caratterizzati da “esplosioni”, glitch e strobo sparate contro l’audience, sembrerebbero omaggiare le creazioni di MFO, senza però sfociare nel citazionismo. Il tutto regge, Aquarian sa tenere ottimamente il palco e quando partono le sfuriate jungle, si salta di gusto.

Senyawa

Se Armando Sciascia e l’etnomusicologo Roberto Leydi fossero ancora tra noi, sarebbero stati sicuramente rapiti dal magnetismo e dalla storia dei Senyawa. Da quando la Morphine di Rabih Beaini ha fatto conoscere a noi occidentali l’inestimabile valore della loro proposta, il combo giavanese ha avuto la possibilità di fare tanti tour e sviluppare nuove forme di sostentamento artistico. Una su tutte, il network di labels che ha permesso la creazione di “Alkisah”, prodotto realmente DIY.
 Un loro concerto è una intensa esperienza difficilmente fruibile senza trasporto.
Rully Shabara, frontman carismatico, sperimentatore delle tecniche vocali, è il partner artistico perfetto per i granitici e primitivi attacchi sonori di Wukir Suryadi, che suona rigorosamente strumenti da lui autocostruiti, usando bambù e amplificando il tutto. Lo studio approfondito della cultura popolare e del folklore indonesiano, si accompagnano alla ricerca sonora. Sostanzialmente, la versione neo-tribal di quello che facevano negli ‘80 sia Merzbow, sia gli Einsturzende. 
In tante esibizioni viste si cerca di ricreare riti carichi di tensione e riferimenti esoterici, ma senza un corrispettivo reale. Nel loro caso, la veridicità è del tutto tangibile.



Machine Girl

Se aspettavate il ricambio generazionale, eccovi serviti.
Con la strafottenza tipica di una crew di sbarbi, vedi la dichiarazione di intenti “…BECAUSE IM YOUNG ARROGANT AND HATE EVERYTHING YOU STAND FOR”, i Machine Girl sono indubbiamente il fenomeno del momento. 
Digital hardcore, sentenziano molte ‘zines. Effettivamente, il loro sound ricorda, in molte tracce degli album pubblicati (rigorosamente su Patreon o Bandcamp, ’che i supporti fisici sono feticismo delle merci), la versione Twitch degli Atari Teenage Riot. La sfrontatezza del frontman Matt Stephenson non è da meno, l’eredità di Alec Empire c’è tutta.
 Per il resto, rappresentano un mondo postmoderno in cui i punti di riferimento culturali sono fruibili da chiunque e pronti per essere consumati. Svuotati del loro significato originario, i generi musicali possono essere ripensati: nel loro frullato sonico coesistono, assolutamente in maniera non pacifica, pulsioni speedcore, vaporwave, footwork e “digital metal”. 
Al Revier, prima apparizione europea in assoluto del duo, parte un pogo da educande. La mia schiena da trentaquattrenne gradisce, memore dei circle pit senza prigionieri fatti in passato. A differenza dell’insignificante live nu-emo dei concittadini del1 girlz, questo è un’ autentica bomba a orologeria. L’entusiasmo acerbo e impacciato di una generazione che rifugge puntualmente il contatto, fa quasi tenerezza. Matt fa stage diving, il batterista Sean Kelly pesta come un ossesso sulle pelli e la Gen Z ha definitivamente scelto i suoi scanzonati portavoce. 
Non fate gli snob che si turano il naso, perché questo è tutto quello in cui un ventenne incazzato può riconoscersi. E per fortuna, vista la merda democristiana che gira abitualmente.


GIMME SOME MORE!

Plauso anche a “Vandals”, installazione AV di corpi in slow motion, sviluppata catturando il preciso momento in cui l’energia potenziale si trasforma in quella cinetica. L’opera, onirica e ammaliante, è il risultato dell’interazione tra la visual artist Teresa Baumgartner e il compositore Sam Slater, team già celebre per il superbo lavoro svolto in supporto di Hildur Guðnadóttir, per la pluripremiata OST di “Chernobyl”.
Niente male gli sferraglianti Animistic Beliefs, industrial ed electro a velocità folli, tra catalogo Ant-zen, I-F e Chris & Cosey, ma pure l’integerrima dark ambient/drone proposta da Variàt.
 E un djset divertente e spensierato come quello della mitica Ostbam, tra anthem old school techno, happycore e italo, ci voleva alla grandissima.

AMAREZZA



Raed Yassin e i Duma. 
Il primo, con l’ambizioso progetto “Phantom orchestra”, concepito durante la solitudine del lockdown, vorrebbe ricreare l’effetto corale di un’orchestra facendo dialogare una dozzina di turntables, su cui girano phantom sounds e improvvisazioni.
Esperimento parzialmente riuscito, lo sbadiglio è in agguato. C’è molto manierismo in questa operazione e, sinceramente, non parrebbe la proposta più innovativa mai vista: al costo di sembrare un rozzo commentatore che non ha capito e ammolla considerazioni dozzinali, mi tengo “Exhibitionist” di Mills.
Veniamo ai Duma. 
Il self titled uscito nel 2020 per Nyege Nyege Tapes, andato a ruba e rivenduto su Discogs a prezzi da fustigazioni pubbliche, ha spiazzato tutti e ridefinito i confini di generi che parevano ancorati ad un passato glorioso.
Basta leggere una qualche intervista al duo ugandese per capire quello che certe sonorità rappresentano per loro, grindcorers HD fieri e inarrestabili.
Non scontentano, ma neanche brillano per particolare foga.
Non sarà certo il sottoscritto a decretare cosa sia grind o meno nel 2022, di sicuro la strada tracciata dai Brutal Truth sembrerebbe lontana. Appare tutto molto depotenziato, trattenuto, poco vibrante. Forse anche il contesto hipsterissimo non aiuta: urletti ad ogni accenno di stage diving, studiatissimi outfit brutti anni ‘90 e florilegio di mullet. Incrociata tutta questa chincaglieria da poser per tutto l’arco del CTM, al quinto giorno di festival iniziano a palesarsi fastidiose irritazioni cutanee.


ZURÜCKBLEIBEN, BITTE!

No, no e poi no. 
Le line up del Panoramabar, decisamente sottotono e date in pasto alla carnevalanza in latex e harness (ah, quindi il Berghain sarebbe solo un club BDSM?!).
Perdonate la generalizzazione, i nomi sulla carta ci sarebbero anche stati, ma è sembrato tutto un grosso e informe ginepraio, serata dopo serata.


I Hate Models ha sfoderato, negli anni, una manciata di EP diventati immediatamente instant classics, seppur molto didascalici. Logico aspettarsi un djset in linea. 
Invece, tutto il contrario. L’innocua e ripetitiva minimal techno proposta, indegnamente caricata su chiavetta (perdonate la critica piccata da boomer, eh), non suscita il coinvolgimento che, stando alla collocazione di timetable, dovrebbe fomentare. Alle dieci della mattina, non ci sono scuse.
Urin e de1i girlz, get off the air! Logora, boriosa e innocua ribellione da festa del liceo. Non bastano i (goffi) growl, non c’è bisogno di mostrare il cazzo e dimenarsi come teenager viziati. File under: épater les bourgeois.

Mai come ora, dopo una grande recessione e una pandemia mondiale che hanno impattato sulle nostre vite, diventa automatico aggrapparsi a espressioni artistiche autentiche, per reagire. 
Necessario, allo stesso tempo, fare crollare pose, atteggiamenti, hype deleteri che non hanno più ragione di esistere. E passare oltre!

Francesco Augelli