Black Celebration, il rito dell’immortalità dei Depeche Mode

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La domanda sorge spontanea: perché fra tutti i gruppi synthpop, i Depeche Mode sono quelli che hanno raggiunto l’immortalità e sono arrivati fino a noi laddove altri si sono sciolti come neve al sole?
La risposta è una sola: sono la quintessenza del genio di quel genere che ne ha travalicato le barriere.
 Erano lì quando è iniziato tutto e sono sopravvissuti agli anni ottanta, raggiungendo lo stato di eterno.
 Sono stati seminali, autentici demiurghi di ciò che con il tempo è scivolato verso la commercialità ed il manierismo.
Dall’elettropop scanzonato degli esordi, hanno virato verso la ricerca musicale, verso sonorità più cupe che a volte sono a lambire l’industrial, e si sono trasformati in bardi brumosi e malinconici dell’era moderna.
Il gruppo di Dave GahanMartin Lee Gore e Andy Fletcher affonda le sue radici artistiche nei Kraftwerk e nei new wavers orientati al suono sintetico, come Ultravox! Human League e Tubeway Army.
Dall’incipit di Speak & Spell del 1981, ogni album è stato come un tassello e una tappa di un continuo percorso evolutivo. 
Se vogliamo trovare un’espressione per riassumere l’arte dei Depeche Mode, questa è cangiantismo cromatico iridescente.
Ogni opera è un prisma multisfaccettato, come un dipinto ad olio o ad acrilico che tende a
cambiare colore, passando da toni più chiari ad altri più oscuri, ma mantenendo quello che è la base. 
Tale cangiantismo riflette quello umorale che secondo le leggi di una trasmutazione alchemica, 
permette una transizione da uno stato malinconico ad uno stato più collettivo e ad un altro più adombrato.
 E quest’arte è il riflesso di uno sfondo di desolazione urbana e di smarrimento esistenziale venato da un pessimismo intimo.

Black Celebration esce nel 1986, in un momento particolare per la band.
I Depeche Mode sentivano l’urgenza di un rimescolamento delle carte per non imboccare una strada involutiva; qui siamo al punto di svolta.
 Giustamente si parla di maturità artistica; i tempi di Just Can’t Get Enough ormai sono alle spalle ed è subentrata una più consapevole concezione del mondo.
 C’è un approccio da pittori neorealisti, simile a quello di certi artisti americani, leggasi Edward Hopper, che dipinsero il dato reale filtrandolo attraverso
un universo di mesta solitudine, che le luci vespertine tendono a rendere ancora più vero.
Black Celebration: una stanza buia, la metafora dell’oscurità dell’inquietudine è evocata da atmosfere iniziali dark, cui seguono sinistre titillazioni elettroniche: si alza il sipario e compare un paesaggio in rovina, dove traspare una visione di un’umanità senza speranza di riscatto.
Fly on the Windscreen: respiri spettrali sono il tramite fra questo passo e quello precedente, del quale è la continuazione, ma con una maggior propensione alla comprensione che il destino è ineluttabile e bisogna godere il momento, perché proprio come uno schianto contro un parabrezza, tutto può finire in un attimo.
A Question of Lust: senza soluzione di continuità, si giunge a questa canzone dalla struttura melodica più serena e distesa, che però è la facciata che cela un’altezza di fondo. Il sentimento viene reso con un elegante techno pop da racconto letterario.
Sometimes: breve intermezzo sospeso fra il gospel e il canto natalizio, pregno di nostalgico pathos, con voci sofferte accompagnate da dolenti note di piano.

It Doesn’t Metter Two: bagliori ed ombre rivelate dai coretti iniziali che rimandano ad una composizione astrattista, mentre un cantato intona una nenia sommessa e fa capolino una chitarra dolente.

A Question of Time: sintetizzatori suonano in modo spasmodico e nervoso, già lasciando prefigurare la svolta rock degli anni novanta. Sospensione fra metallici riverberi.
Stripped: l’apice, la cinematografica melodia in divenire che raggiunge il suo climax nel suo
ritornello epico. Il tutto arricchito da un battito sonoro di ritmo urbano. Semplicemente
straordinaria.
Here is the House: cuspide fra la spassionata serenità dei primi lavori e la cupezza
di quelli successivi.
World Full of Nothing: dietro ad una voce accattivante, si cela l’amara
realtà. Deliziosa pennellata di spleen intimista e di nostalgia mal celata, con i suoi arabeschi
sintetico-notturni.

Dressed in Black: si prende la via verso un decadente idillio di serale grazia.
New Dress: il nostro viaggio termina con queste nevrotiche pulsazioni robotiche fra i Kraftwerk ed i timori per il futuro.

Black Celebration è uno dei dieci dischi fondamentali degli anni ottanta.

Marco Fanciulli