Prima di parlare di Wang, Gou, Vakula, The Blessed Madonna, May, Morillo e di tutte le persone coinvolte in situazioni totalmente negative, contraddittorie o semplicemente imbarazzanti, dovremmo fermarci e ragionare in maniera più ampia sul contesto in cui tutto questo avviene, magari sfruttando questo momento di stop di serate e relativo information overload mediatico per vedere dove siamo arrivati e perché ci siamo arrivati. E non riesco a farlo se non facendo un passo indietro, riavvolgendo il nastro delle mie esperienze.
Quando ho iniziato a frequentare questo ambiente (io ero più in quello electro/techno, ma è uguale anche se parlassimo di house o altro), era piuttosto incontaminato perché era la convergenza di persone curiose che grazie al contatto con mondi sonori nuovi e con ambienti di fruizione nuovi (rave, club, ecc.), erano portate ad uscire dalla loro confort zone mentale e si aprivano (o almeno provavano a farlo).
E’ stata in fondo la vera grande rivoluzione del ballare assieme (club o rave che sia): stare a contatto, anche fisico, con persone diverse mentre il tuo corpo si lascia andare seguendo ritmi e suoni nuovi ed interagendo in tempo reale con le emozioni che ne scaturivano. Io continuo a trovarla una cosa bellissima e utopica, ma come tutte le utopie ha sempre un lato oscuro. Nel nostro caso sono i limiti e le regole non scritte della convivenza sociale. Quell’ammasso di problematiche, legislative e psicologiche, che sono il male della nostra società e che saranno sempre la fonte delle ingiustizie e delle incomprensioni del vivere quotidiano.
Ancora oggi, nonostante battaglie interminabili, la nostra società si oppone a leggi libertarie come l’aborto tramite l’obiezione di coscienza indiscriminata, il femminicidio è fra le prime dieci cause di morte fra le donne fra 16 e 44 anni un essere umano deve spesso nascondere la propria sessualità per paura di ritorsioni pubbliche, esistono tantissimi stereotipi su come un essere umano debba rappresentarsi nella società stessa, il razzismo è sempre dietro l’angolo e mille altri problemi con cui ci scontriamo ogni giorno. Siamo imperfetti e lo saremo sempre, in corsa verso un mondo il più possibile inclusivo e sostenibile, sia umanamente che fisicamente, ma con enormi difficoltà.
E’ la nostra lotta quotidiana. La stessa lotta che ci ha fatto evolvere e cambiare, in peggio, ma anche in meglio. Tutto il flusso di informazioni che riceviamo ci sottopone ad uno stress costante e spesso ci fa dimenticare quello che abbiamo costruito di positivo in millenni di vita su questo pianeta. Abbiamo enormi possibilità e forse ne sfruttiamo il minimo indispensabile, facendo involontariamente di tutto per non evolverci, schiacciati dall’incedere inarrestabile dell’information overload. E quindi ci impauriamo, tentenniamo, abbiamo reazioni scomposte, non gestiamo bene e semplifichiamo, a volte acuendo i tratti peggiori del nostro essere.
Lo vediamo tutti i giorni sui social, un mezzo potenzialmente incredibile per connetterci che però è diventato troppo spesso il veicolo di una banalizzazione dei contenuti e l’esempio più evidente della degenerazione cognitiva dei nostri tempi in cui assistiamo ad un flusso incredibile di commenti non necessari in cui troppo spesso si decontestualizza e non si riesce a capire il dove, il come ed il perché si dicano determinate cose.
Prima del disastro imminente del cambiamento climatico e delle future variazioni politiche post/neo capitaliste o post/neo dittatoriali o post/neo socialiste a cui forse andremo incontro (o forse no), insomma prima del caos che ci aspetta (o forse no), siamo di fronte all’apocalisse cognitiva.
Ma cosa c’entra tutto questo con la techno, l’house e in generale con la musica?
La musica, nel perdere la sua presenza fisica dalla metà degli anni ’90 in poi, è diventata una sorta di liquido amniotico in cui galleggiamo. Ci trascina in varie direzioni con le sue correnti incrociate e le sue impreviste variazioni umorali.
E’ diventata una sorta di Sostanza M, la droga descritta da Philip Dick in “Un oscuro scrutare”, ovvero il veicolo perfetto della separazione sensoriale/razionale con cui portare contenuti nuovi e generare identificazione senza possesso. Un flusso continuo in cui immettersi per riconoscersi e delinearsi, come una playlist infinita di Spotify.
La musica, da mezzo di condivisione, è diventata quindi elemento fondante dell’auto-identificazione, estetica e cognitiva. E’ diventata il vero variatore emozionale dei nostri tempi e pura colonna sonora delle nostre azioni quotidiane. Grazie a innumerevoli device, con al centro lo smartphone, sentiamo musica ovunque e quando vogliamo e, grazie a questi device, abbiamo accesso a tutto ciò che è musica in tempo reale. In pratica la musica è il perfetto elemento funzionale nel nuovo millennio interconnesso e, da elemento di aggregazione, rischia di diventare uno strumento di isolamento.
L’unica variabile aggregativa della musica resta quindi la fruizione fisica ovvero comporla o partecipare ad una performance. In questo senso abbiamo fatto grandi passi avanti nel corso di un paio di secoli.
La prima idea di performance musicale accettata socialmente è stata il concerto (classico, jazz o rock che sia), ma il grande passaggio è stato quello del ballare la musica che ascoltavamo, prima seguendo dei gruppi su un palco e poi in spazi appositi con la sostituzione del dj al posto del gruppo e lo spostamento del dj in una consolle, eliminando il palco e la centralità del performer che diventava il pubblico stesso e, direi, il club stesso in una osmosi fra contenuto e contenitore nuova ed eccitante. Ci si è poi spostati in spazi aperti o magari spazi più grandi e provvisori con i rave, ma il principio è rimasto lo stesso. Tutto si è modificato nel corso del tempo in relazione al cambiamento dell’offerta di interazione fra persone e con la loro interconnessione. Dai biglietti venduti nelle biglietterie nei teatri o nella sale concerto o nei club, siamo passati ai flyer dati singolarmente o in spazi specifici come dj point per i rave fino ad arrivare all’esplosione dei social che hanno permesso la condivisione in tempo reale di contenuti e informazioni. Un’esplosione di dati che ha invaso la nostra percezione quotidiana e che ha reso più democratica, ma anche più normale, un’esperienza che era frutto di una voglia di liberazione che veniva dallo scontro sociale in cui vivevamo. La controcultura si è trasformata in abitudine.
Da quando house e techno sono esplose nel mondo diventando il contenuto perfetto del concetto di ballare sviluppatosi alla fine del secolo scorso, tutto è cambiato anche a livello musicale. La potenza dei due generi è stata estratta, stravolta, modulata secondo interessi più grandi dei generi stessi. House e techno hanno cambiato la nostra idea di tempo libero senza che nessuno potesse controllarne l’evoluzione. Oggi le idee originali si sono annacquate in questo fluido amniotico sonoro in cui tutto è tutto ed il suo opposto ovvero il nulla. Il presente futuro presagito dal cyberspazio è ora realtà e serpeggia nel nostro quotidiano senza controllo, assecondato dall’information overload. La tecnologia diventa amica e nemica in pochi secondi.
E’ il secolo della complessità ed è il secolo in cui determinate controculture sono state assorbite dal quotidiano come non mai. Come dice Gaetano Parisio aka Gaetek in post su Facebook: “I recenti episodi di gossip, i sempre più frequenti scandali che non hanno nulla a che vedere con la musica sono segni chiari ed inequivocabili di un degrado lento (neanche tanto lento in realtà) e purtroppo inesorabile. In realtà il “nostro” mondo di underground non ha più niente. La prova è che la nostra scena rispecchia in pieno il mondo reale, è totalmente correlato alle stesse dinamiche che regolano una qualsiasi altra scena o campo”.
In sostanza non è la scena che si è rovinata o modificata, è semplicemente diventata “normale” e la sua normalità ha portato con sé tutte le caratteristiche della società odierna, incluse quelle negative. Per cui nella diatriba Wang/Gou non c’è un vincitore.
E’ solo l’ennesima conferma che questo mondo, che idealizzavamo accecati dalla sua visione utopica, è fallace come noi. Edonismo, violenza (verbale e fisica), sopraffazione, ingiustizia sociale ed economica, arrivismo, anaffettività e mille altre cose sono tutte qui, nella scena come nel mondo reale.
Ma perché ancora pensiamo che il mondo del clubbing o della musica elettronica ne sia esente?
Questa è la domanda chiave secondo me. La questione risale al fatto che, a differenza di altre musiche che sono state identificate e rese figura tangibile come è avvenuto con giganteschi generi contenitore, anche loro derubati e scarnificati, come il rock o il jazz, il mondo della techno, dell’house e delle loro derivazioni, resta un mondo sostanzialmente vago nella sua rappresentazione. Anche la persona più digiuna di musica capisce se un artista sta suonando o cantando in playback, ma ancora non capisce bene cosa faccia un dj. Quello del djing è un mondo in continua evoluzione, connesso come pochi alla tecnologia, e, proprio grazie a questa sua complessità di rappresentazione omnicomprensiva, difficile da capire. Sul suo corpo hanno banchettato e banchettano mistificatori e mercanti, pronti a capire che ballare è ormai normale come andare a cena fuori o fare la vacanza al resort all inclusive con famiglia e cane annesso.
Storicamente il cambio di passo c’è stato con i grandi organizzatori inglesi nel periodo post rave messo alle strette dalle restrizioni tatcheriane. Tutto è stato normato.
I traveller hanno continuato il loro viaggio utopico e a volte autodistruttivo, mentre alcuni organizzatori più scaltri hanno abbandonato gli spazi sperduti nelle periferie o nelle campagne per gettare le fondamenta dei big club tipo Cream e poi rientrare dalla finestra dei festival. Questa voglia di stare assieme e vivere oltre la rappresentazione social (o magari per aumentarla) era ed è enorme, capace di trasformare il fango in fuochi d’artificio, come a Coachella ad esempio, ed ha attratto persone che con questa scena non c’entravano nulla, ma che avevano le capacità manageriali giuste per indirizzarla e piegarla all’obiettivo del massimo risultato e della massima visibilità. Nulla di male per quanto mi riguarda, ma se nel libero mercato non c’è alcuna componente etica e di merito, un lago calmo e accogliente può trasformarsi in poco tempo in un oceano in tempesta dove sopravvivono solo le navi più grandi e i pirati.
Come uscirne? Non c’è soluzione. Meglio accettarlo subito, come abbiamo accettato i fast food, magari sfruttandoli ogni tanto senza troppi sensi di colpa. Ci sta ogni tanto mangiare schifezze, ma almeno con la consapevolezza che quello non è cibo naturale. E’ come il guilty pleasure del ballare mezzo fuori di testa al festivalone con i fuochi d’artificio. Tutto ok, ma ballare assieme è storicamente altro. Il dj non deve stare su un palco, la musica e come si sente deve essere al centro, il club deve essere al centro con i suoi spazi, le sue luci e le sue oscurità e le persone devono essere i veri protagonisti della serata in piena simbiosi con la musica suonata. Dobbiamo tornare a far capire che la nostra riconoscibilità è prima di tutto nella collettività, nel gruppo, nella condivisione, nell’empatia e nell’applicare tutto questo anche dopo la serata nella vita di tutti i giorni, facendo diventare quelle sensazioni provate in pista delle armi di difesa verso la complessità dei tempi in cui viviamo e non strumenti di codifica o assimilazione. Insomma dobbiamo tornare a fare comunità, soprattutto dopo questo periodo orribile.
Dobbiamo tornare a rendere tangibile la differenza dallo status quo che ci circonda, ognuno a suo modo, ma in modo chiaro, sia che lo si faccia in modo completamente antagonista, che all’interno del sistema sociale esistente. Perché la differenza c’è, basta rimettere al centro quelle idee fondanti del clubbing come uguaglianza, sano edonismo e lotta alla discriminazione, evitando di copiare ciò che non ci piace solo perché in quel momento è di moda.
Dopo questo periodo complesso e doloroso, sogno quindi un fiorire di centri di aggregazione multidisciplinari in cui stare assieme, mangiare, bere, sentire musica, parlare di musica, leggere di musica e vedere musicisti che suonano. Chi può lo farà magari più in grande, chi non può lo farà nel suo piccolo, creando realtà locali e poi facendole interagire con altre simili, creando rete. Lo si dovrà fare collaborando anche con altre realtà che si occupano di questi temi o altri problemi sociali, unendo le forze e cercando di risvegliare la voglia di stare assieme. Insomma creare collettivi di persone che si danno da fare senza ascoltare il brusio di fondo del gossip e del lato oscuro della realtà. Quello arriva comunque senza che gli diamo eco. Sarebbe ora di lasciarlo in sottofondo e alzare il volume della musica e della sua potenza comunicativa. Non è mai troppo tardi e sicuramente ci aiuterà, come ha fatto in passato.
Andrea Benedetti