L’elegia d’autunno della natura che squarcia il credo dell’uomo-macchina.
Tale stagione è uno stato dell’essere impaziente dove ogni metamorfosi è un tocco di mistero, il cui fascino è pari a una folata di vento emanata direttamente dal divino.
Ognuna di esse è un’oncia di infinito diafana e trasparente; non si sente, si ascolta, perché mai nessuna cosa come la poesia dell’autunno dà l’idea della differenza fra sentire e ascoltare. Chi oltrepassa la semplice funzione del senso dell’udito e si immerge nella canzone autunnale è come se aprisse una porta che accede ad una stanza dalle sembianze disadorne e polverose. Entrando in essa, tutte le apparenze crollano, come un velo di Maya che viene squarciato rivelando un mondo di micro variazioni tattili e visive, all’interno di un involucro sonoro.
Questa realtà intona un concerto di archi che fa da scorta al viaggio di una moltitudine di foglie danzanti nell’ipnosi del cosmo; evoca emozioni allo sguardo di differenti tonalità di rosso; è un quadro impressionista di alberi dai rami disadorni e di tappeti di viole marroni su battiti di tamburo irrequieti, colonna sonora di città brumose popolate da vite in transito all’ombra di ciminiere fumanti.
Il mistero della natura incombe sulla civiltà della macchina e ne trascende la dicotomia in direzione di un’estasi cosmica, connubio fra il Tempio Supremo del Creato e i Propilei della Tecnica dell’Uomo. È l’elegia di un sentimento teutonico che suggella il Walhalla dello sposalizio fra essere umano ed universo. Questa canzone è pari a una ziqqurat, il cui involucro è animato da ingranaggi in movimento, in nome di una verticalità verso un cielo agitato dagli umori stagionali in questione.
In tutto questo incedere di battiti e ondulazioni, è soltanto l’era del cambiamento autunnale, così lento e inesorabile, che ci fa varcate la soglia verso un mondo di micro metamorfosi minimaliste.
Marco Fanciulli