I can’t escape myself. La storia di “Jeopardy” dei The Sound

A vent'anni dalla morte di Adrian Borland, analizziamo il primo album della leggendaria formazione new wave

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In occasione della ricorrenza dei vent’anni dalla morte di Adrian Borland vogliamo ricordare una band seminale come The Sound, recensendo il loro disco più importante: Jeopardy.
Appartenenti a una sorta di terra di mezzo della new wave, ebbero la sfortuna di non raggiungere il successo che avrebbero meritato, o meglio ottennero un largo seguito di culto ma non le vette planetarie di gente coeva come i Cure o i Bauhaus. Il motivo va ricercato non nella qualità della loro musica, che era eccelsa, quanto nella mancanza di quel quid di immagine che gli avrebbe permesso di fare il gran salto. Borland non aveva la caratura del frontman e l’attitudine di un Ian Curtis, di un Robert Smith o di una Siouxsie, e purtroppo, è palese, il grande successo arriva solo se il livello musicale (non importa se alto o scadente) è supportato da un’adeguata cultura dell’immaginario. È la legge del mercato, la celebre mano invisibile di Adam Smith.

Jeopardy è il primo album; uscito nel 1980 in piena epoca new wave, è il manifesto del gruppo. Un disco geniale, soprattutto se pensiamo che fu registrato con pochi mezzi in economia. Il talento emerge quando si realizzano lavori con strumenti scarni senza necessariamente ricorrere a studi di registrazione ultra sofisticati e tecnologici.

Analizziamolo brano per brano, tenendo presente che il giudizio critico è figlio delle emozioni ottenute.

I CAN’T ESCAPE MYSELF: il brano di apertura che sprigiona l’estetica wave della formazione, ci introduce fin dall’intro paranoico di basso e chitarra a una delle loro influenze musicali più importanti, cioè il krautrock incline alle atmosfere motorik-dark (Neu, Harmonia L.A. Düsseldorf). Il tormento esistenzialista di Borland si esprime in tutto e per tutto.

HERTLAND:l’esuberanza che lascia trasparire la loro poliedricità. Autostrada nella notte darkwave.

HOUR OF NEED: Joy Division e Magazine vanno a braccetto in un dipinto a tinte fosche greve di angoscia munchiana.

WORDS FAIL ME: Arricchito da un assolo di sax, carica di adrenalina lo spleen che pervade tutta la traccia. Tra i migliori del lotto.

MISSILES: l’urlo disperato di una mente tormentata che si scaglia contro i signori della guerra. Soltanto la chitarra glaciale e tagliente ci rende l’idea del senso di disperazione di un uomo che non trova il suo posto in un mondo marcio e corrotto. Stilisticamente siamo dalle parti di Magazine anfetaminici che incontrano i Bauhaus in preda a una paranoia delirante, senza la teatralità di questi ultimi.

HEYDAY: Da questo è stato estratto il singolo; un accelerato rock’n’wave con fantasmi joydivisioniani ed influenzato dai Cure.

JEOPARDY: la title track è pura eleganza; tra svisate di synth, chitarra interlocutrice e basso ritmico caracollante, ogni nota è al posto giusto.

NIGHT VERSUS DAY: rappresenta lo zenith dell’ inquietudine. Siamo dalle parti del goth più esplicito (Sister of Mercy). Voce che declama una litania e gioco di chitarre dall’andamento drogato.

RESISTANCE: anche qui siamo dalle parti della crew di Salford ma con meno cupezza. Una carica di energia nel Maelstrom del turbamento.

UNWRITTEN LAW: tra i più introspettivi dell’opera, dove il basso nevrotico è il telaio su cui si svolge la trama di chitarra e synth mentre quest’ultimi si lanciano in un dialogo reciproco con l’innesto riflessivo vocale.

DESIRE: ultima canzone. Inizia con un’alternanza di piatti e basso per poi svolgersi in un mid-tempo dove l’ansia cresce al crescere dell’intensità degli strumenti.

Jeopardy, come dicevamo all’inizio di questo viaggio, è il manifesto dei The Sound, band che ha saputo mutuare le influenze di tutte le principali formazioni new wave dell’epoca, le ha miscelate, e ne ha ottenuto una sintesi multisfaccetata. Adrian Borland purtroppo non riuscirà a fare pace con i suoi fantasmi che lo trascineranno in una spirale di depressione fino al suicidio nel 1999.

Marco Fanciulli