The Long Now ’18: Fuori dal tempo

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Sono trascorsi più di otto mesi dal The Long Now, l’ardito festival che ha concluso la MaerzMusik berlinese e verrebbe da pensare che la memoria si sia ormai stemperata, disperdendo brandelli dei propri dettagli nel flusso del tempo. Ma il The Long Now è diverso, è una sfida temporale in cui il dio Crono esce inevitabilmente sconfitto; per questo fa poca differenza parlarne subito, parlarne ora, o tra un decennio: nella dimensione cronologica sospesa della kermesse, non esistono uno ieri ed un domani, tutto è oggi, è ora. Approfittiamo dunque del recente passaggio dall’Italia di alcuni dei suoi migliori protagonisti (i Necks al Forlì Open Music il 14 Ottobre e Colin Stetson in Triennale per la rassegna Jazzmi il 4 novembre, con gradito ritorno il prossimo 5 aprile 2019 a Trento per l’edizione di Transiti al teatro Sanbàpolis) per sfiorare nuovamente il tasto pausa del nostro inconscio e ripescare ciò che è rimasto inciso tra le sue due barrette parallele.

IN:

Selezione artistica più indipendente:

Quando abbiamo presenziato nel 2017, si è definita la manifestazione come versione “short and intelligent“ dell’Atonal. Ebbene quest’anno è stato reciso nettamente il simbolico cordone ombelicale con quest’ultimo, poichè la scelta artistica in modo marcato è caduta sull’avanguardia, sull’impro jazz, diminuendo la componente di musica elettronica o comunque non elevandola a genere primario. Un segno di maturazione e consapevolezza dei propri mezzi espressivi.

Gli spazi e la formula festivaliera:

La sua formula regge in toto, tanto da aver fatto un po’ scuola ed essersi diffusa in diverse altre rassegne anche alle nostre latitudini. Trenta ore tirate (29 in questo 2018, causa concomitanza con il passaggio all’ora legale) nelle quali il tempo non dà in alcun modo l’impressione di trascorrere. Un lungo istante di nome e di fatto. Una sospensione perfettamente riuscita che avviene anche grazie al contesto della Kraftwerk (ricordate? Ne abbiamo parlato qui e qui): uno spazio monumentale ed immobile che in questo caso si presenta scevro di scenografia. Si utilizza un solo palco di dimensioni moderate, con l’eccezione di un paio di esibizioni tra il pubblico. L’intero ambiente è completamente isolato dalla luce esterna, mentre all’interno non avvengono mai drastici cambi di dinamiche o di illuminazione. L’ideale per accasciarsi sulle brandine sparse ovunque e attendere il fluire degli istanti, con la percezione che non lo facciano affatto.

Il pubblico:

Lo spettatore è accolto e coccolato con attenzione, proprio per rendere minime le possibili distrazioni. A tutti è offerta appunto una brandina dove adagiarsi, a tanti una coperta. Per chi vuole entrare/uscire la facilità di accesso è estrema; i punti bar sono discreti e la cauzione recuperabile sui bicchieri di plastica offre ai volenterosi la possibilità di bere quasi gratis, contribuendo allo stesso tempo alla pulizia del posto.

Le seguenti performance:

Le ben quattro ore di concerto dei Necks insieme al libanese “A” Trio (Mazen Kerbaj alla tromba, Raed Yassin al contrabbasso e Sharif Sehnaoui, anche lui visto di recente in Italia, alla chitarra) nelle quali la costruzione musicale delle leggende australiane si interseca con suoni differenti e lascia spazio ad ampie pause (tranne per l’indefesso batterista Tony Buck, che non appoggia mai le bacchette) in una continua sorpresa per le orecchie. Il concerto mostruoso di Colin Stetson, con molteplici cambi di passo e sax, più potente che mai, sospinto dal riverbero delle enormi aree della centrale, tanto che lo stesso sassofonista conclude il tutto guardandosi intorno e commentando: “this is glorious”.
Caratteristiche acustiche che fanno risaltare al meglio anche la ricerca sonora di Tomoko Sauvage, passaggio migliore della fase di risveglio dallo sleeping concert. Immaginate che a togliervi dalle delicate braccia di Morfeo, siano le percussioni stocastiche “suonate” da gocce d’acqua che cadono all’interno di ciotole e contenitori di porcellana di diverse dimensioni e differentemente riempiti. Il tutto poi processato ed amplificato per mezzo di idrofoni. Infine la conclusione violentissima e cruenta di Lustmord, rappresenta il necessario schiaffo sonoro utile a rimettere in moto le lancette e venire scaraventati nuovamente nella fredda realtà.

IN BETWEEN:

Menzione speciale per l’esibizione domenicale di Kate Carr. Consigliamo a nostri lettori di tenerla sotto attenta osservazione e confermiamo che le sue qualità artistiche son già da tempo oggetto dei rumor da parte degli addetti al settore berlinesi.

OUT:

Il ristoro:

Assodata la libertà dei partecipanti di poter accedere alla manifestazione, in considerazione in special modo degli orari pienamente notturni, si è fatta sentire tuttavia la carenza di un’area di ristoro più presente ed economicamente abbordabile; tanto più che la dimensione del luogo consentiva di collocarla laddove non si sarebbe recato alcun disturbo o distrazione agli intervenuti.

Lo sleeping concert e le seguenti performance:

Lo sleeping concert, punto di forza delle precedenti edizioni, si è ritrovato stranamente sacrificato e sfavorito anche dal cambio d’ora. In generale la proposta di Elodie è stata abbastanza banale, oltre che confinata a quattro ore soltanto, per poi passare al risveglio mattutino. L’anno scorso fu meglio organizzato e strutturato; furono chiamati nomi di maggior prestigio e caratura come Chris Watson dei Cabaret Voltaire alle 8 del mattino.
Il dubbio inoltre si è esteso a pochi altri live non riusciti, in particolare Robert Aiki Aubrey Lowe, Huerco (che nella dimensione dal vivo non riesce ancora a replicare la qualità dei passaggi sonori presenti su supporto) e Second Woman, mentre lascia qualche perplessità la scelta di dedicare ben cinque ore della domenica all’esecuzione di Feldman, che poteva forse trovare collocazione migliore nel flusso sonoro del festival.

Filip J. Cauz. con la partecipazione di Simone KK Deambrogi e viceversa

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