Il Maschinenfest è morto, lunga vita al Maschinenfest!
Ci siamo, il rutilante carrozzone del festival delle Macchine ha calato definitivamente il suo oscuro sipario.
Ma cos’è stato il Maschinenfest? Perché ha spinto sempre tantissima gente da tutto il mondo a riunirsi per tre giorni all’anno in qualche sperduta cittadina industriale del nord della Germania, per rinnovare e partecipare al rituale? Ebbene io non ho la risposta ma forse, dal racconto che sto per cominciare, magari riuscirò a farvi entrare in questo mondo.
Il festival nasce quando, verso la fine del secolo scorso, viene fuori prepotentemente un nuovo genere musicale (power noise, technoise, rhythm & noise chiamatelo come vi pare) che, dall’industrial di stampo classico, prende a contaminarsi con la club culture e la techno.
Ne esce un ibrido che lì per lì non piace a nessuno: né a chi ascolta industrial perché troppo techno, né a chi segue la techno perché troppo industriale. Grazie però all’arrivo di nuovi artisti, poi diventati cult (Synapscape, Imminent Starvation, Winterkalte, Sonar ecc…), e all’apporto, in particolare, di due label (Ant-zen e Hands), questo virus inizia a mietere sempre maggiori consensi fino a provocare l’estremo bisogno di serate e festival dedicati.
Stefan Alt e Udo Weissman, al comando rispettivamente di Ant-zen e Hands, nella costante ricerca di un sound che li rappresentasse al meglio, sfornano dischi altrimenti impubblicabili.
Thomas Hein è un militante punk di vecchia scuola che, stregato dall’approccio “do it yourself” dei due, darà un contributo fondamentale all’ideazione del più importante festival della scena.
L’esordio è scalcagnato e traballante, com’è giusto che sia: le prime edizioni vengono tenute in un piccolo locale ad Aachen chiamato Bunker perché sotterraneo e solo per gente del posto.
Man mano che la fama cresce, le riviste specializzate iniziano a parlarne, i gruppi finiscono recensiti e l’interesse aumenta, il Bunker è ora troppo piccolo per gestirne la richiesta.
Amici che presero parte a una delle prime edizioni raccontano che i muri letteralmente sudavano, tanta era la condensa creata dai corpi accalcati!
Nel 2003 si cambia location e ne approfitto per partire all’avventura: si passa ad un castello abbandonato nel mezzo del nulla nei pressi di Dusseldorf, dove un ottobre tedesco particolarmente freddo e piovoso non scoraggia trecento partecipanti ostinati con tanto di tende. Per me è un immediato colpo di fulmine!
Sì perché, a parte i disagi atmosferici e del luogo (sì che era un castello, ma senza riscaldamento e finestre, per scaldarsi bisognava stare tutti attaccati a ballare), quello che vidi mi catturò completamente, una totale celebrazione della cultura DIY. E poi logicamente la musica, lo possibilità di vedere, toccare con mano quelli che stavano diventando i miei gruppi preferiti, come per esempio Coverter, oppure comprare da uno stand fisico gli album che più desideravo, entrare in contatto con la maschinenpeople, quel popolo che andava al festival per riunirsi con la propria seconda famiglia: quella formata in base ai propri gusti musicali e con la quale c’era, in un certo senso, anche più affinità.
L’anno successivo è la volta di una vecchia macelleria a Krefeld (sempre zona Dusseldorf), per poi fare un piccolo excursus ad Essen e infine ad Oberhausen, dove il MF ha trovato il luogo più adatto per terminare i suoi giorni, ai piedi di una vecchia turbina (da cui il nome Turbinenhallee), capace di ospitare più di mille persone.
Ospiti fissi della rassegna sono stati gruppi quali Ad Noiseam, Audiophob, Pflichtkauf, ma anche negozi tipo De Luidspreker. Molto facile trovarsi a vendere un rene dopo aver speso tutti i propri sudatissimi risparmi in magliette, CD e gadget vari.
Nonostante il core fosse rhythm & noise, power noise, technoise, il MF ha proposto validissime digressioni in ambiti molto diversi quali ambient, power electronics, breakcore, metal, punk.
Una nota di merito particolare va al pubblico del Maschinenfest: a prima vista tutto di nero vestito, in realtà, pur nella monotonia cromatica, molto diverso e “colorato”. Difficile dimenticare il personaggio che andava sempre con un topolino di pezza che proiettava in assurde acrobazie mentre danzava, o la ragazza vestita da sacco a pelo, per non parelare di tutti i generali/esse di vari eserciti, o delle infermierine sexy in lattice bianco, ma anche dei soliti con armature di plastica, capelli di plastica provenienti dalla terra di Albione direttamente dal londinese Slimelight.
Sapere di poter incontrare almeno una volta all’anno le nostre anime gemelle, ha reso il festival un qualcosa di particolare: dialogare con il tizio che era venuto dall’Australia o dal Giappone per inseguire una passione comune, conoscere altri connazionali che mai avresti incontrato se non ci fosse stato l’amore per le stesse cose non ha prezzo, per tutto il resto rivolgetevi al Maschinenfest.
E finalmente la musica: nove gruppi a botta per tre serate, che si alternano senza sosta sul palco, dove ingegneri del suono e delle luci davvero competenti trasformavano l’esperienza in qualcosa di unico.
Soluzioni rivoluzionarie, set standard, laptop band, gruppi con dieci e più elementi, qualsiasi sfida è stata affrontata nel migliore dei modi, con una sicurezza e precisione da far apparire tutto facile.
Nei miei dodici anni di militanza ci sono stati act che non potrò mai dimenticare, show che hanno colpito a morte la mia fantasia, come i 5f-55 quando si presentarono vestiti da cosmonauti con tanto di pistoline laser per fronteggiare improbabili alieni, o nella versione 5f-x quando invece piombarono sul palco come gli extraterrestri a cui avevano dato la caccia anni prima, con costumi mastodontici in uno scenario davvero surreale.
Monokrom (super progetto che riuniva quasi tutti i gruppi più importanti della Ant.Zen) vestiti da conigli e carote dove i primi inseguivano le seconde oppure, quando fecero un concept album sulle mummie, e si presentarono tutti coperti da bende, mentre venivano proiettate immagini di loro mummificati e spaventosi; i Rasputeen proposero uno scenario di una casa dove ognuno era vestito da membro della famiglia con un sacco del pane in testa; i Catholic Boys in Heavy Leather vestiti da porno attori sadomaso con pallina in bocca; i Sudden Infant diedero luogo a una performance a metà tra noise estremo per microfoni a contatto, e una piece teatrale, in cui Joke Lanz recitava filastrocche sghembe e surreali. Una volta i Kafee und Kuchen si piazzarono in mezzo al pubblico con microfoni a contatto vestiti, nome omen, da torta e caffè; i Test Dept redux invece diedero vita a un set enorme.
Infine, come non citare Hypnoskull, best performer di quest’ultimo anno: il cofano di un’auto tra la folla come stage, e ad un tratto un angelo posticcio sceso sul tettuccio viene selvaggiamente picchiato da un paio di gerarchi in giacca e cravatta grigie. Una critica feroce alla società dell’apparenza, una via crucis 2.0, tanto fisicamente potente da scioccare alcuni spettatori, che si sono lanciati in difesa dell’angelo, mentre sullo sfondo risuonava una musica potente e oscura.
Concerti forse più convenzionali ma non perciò meno memorabili sono stati sicuramente quelli dei Winterkalte, degli Imminent entrambi amatissimi; Synapscape con tracce “sporcate” da una voce ruvida e fottutamente intrigante; Contagious Orgasm dal Sol Levante con il loro sound che, negli anni, si è trasformato fino ad arrivare ad essere una sorta di colta world music screziata da venature più rumorose. Dirk Geiger, passato da una melodica IDM a una lugubre ambient molto cupa, corredata da video dall’effetto assicurato; Orphx, beniamini anche dei technohead, molto migliorati da quando c’è anche Christina insieme al buon Rich.
I Militia un vero esercito per quantità di musicisti e potenza di fuoco, armati di materiale di riciclo tipo bidoni e ferraglia assortita, hanno incendiato il dancefloor; Ambassador 21, digital hardcore da guerra: animali da palco.
E’ difficile non sentirsi in colpa verso chi non è stato menzionato, e l’entusiasmo dei ricordi potrebbe tenerci qui ancora per un bel pezzo!
L’afterparty, cazzone ma liberatorio, fa cadere le maschere, la festa consuma le ultime energie, fino a quando le prime ore del lunedì spengono il nero incantesimo.
Per dodici anni ho vissuto un’esperienza totalizzante, sono cresciuto e maturato con la festa delle macchine, sentirsi parte di quel qualcosa così speciale è andato ben oltre il gusto musicale (che nel mentre è naturalmente mutato).
Il motto ”Il Maschienenfest è il Maschinenfest” ribadisce, se ci fossero stati dubbi, l’imprescindibilità e ineluttabilità di questo strano fenomeno a cui si è dovuto per forza aderire.
Il mio sentimento è ambivalente: gioia per aver vissuto attivamente un festival che non ha eguali in Europa, e tristezza perché questa, come detto, era la migliore occasione per incontrare la mia famiglia oscura rumorosa.
D’altronde uno che ha portato persino la moglie in viaggio di nozze al Maschinenfest non poteva voler altro che condividere tutto ciò che rappresenta con la persona che più ama. Perché alla fine di tutto, WE ARE MASCHINENFEST, WE ARE MASCHINENPEOPLE!
Carmine Pizzuti