Unsound ’17: Come sopravvivere a Nina Kraviz senza l’aiuto della Żubrówka

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Quindicesima edizione dell’Unsound Festival a Cracovia, che quest’anno aveva come tema ‘Flower Power’.
Come sempre, anniversari e concept sono principalmente strumenti di marketing, e ben poco delle attività del Festival hanno avuto riferimenti riconducibili al ‘Potere dei Fiori’. In realtà, sarebbe stato più appropriato scegliere come concept ‘Tiriamo a Campare Onorevolmente’, che descriverebbe molto meglio l’attitudine di questa edizione: non che sia poi un concetto cosí gramo e negativo come potrebbe sembrare.
L’Unsound è un festival strutturato in un ampio periodo di tempo (quest’anno dall’8 al 15 ottobre) le cui attività iniziano spesso fin dal primo pomeriggio (con concerti piazzati anche alle 11 di mattina) e che nel fine settimana esplode offrendo una location, il celebre Hotel Forum, con tre sale attive in contemporanea. Per riempire questa tutta programmazione, la massa notevole di artisti necessari rende quasi fisiologico che la zavorra sia notevole: il risultato è che almeno la metà dei nomi in cartellone sarebbe da mandare direttamente in discarica, senza neanche dar loro la chance di passare per la raccolta differenziata.

Senza perder tempo con questa fuffa, andiamo direttamente sulla restante metà del festival, comprendente le (sostanziose) sorprese,  i fuoriclasse (risaputi od inaspettati) e le delusioni (immancabili), come un corretto rapporto di amore-odio con la musica prescrive.
Riguardo la prima categoria (le Sorprese), l’Unsound è dopotutto ancora capace di giocarsele, grazie alla sua programmazione non ortodossa: ecco quindi passare Mats Gustafsson suonare in modo iconoclastico ed alieno i suoi sax, questa volta in compagnia del duo BNNTV, una specie di versione polacca dei Lightning Bolt, oppure Mike Cooper, 75enne dalle esilaranti doti di entertainer che sfodera alle 11 di mattina un concerto di voce e dobro filtrato ed elaborato elettronicamente, annullando qualsiasi (mio) preconcetto sul folkblues.
Ancora sorprese nello spendido auditorioum dell’ICE dove si esibiscono prima i Visible Cloaks in un prezioso live set con elementi di minimalismo, ambient e molto altro, con cui dipingono un originale e vivido affresco elettronico, e poi il tributo alla musica di Moondog eseguito con una orchestra di nove elementi su strumenti gamelan. Poteva essere un disastro, è stato un trionfo.

Per quanto riguarda la seconda categoria (i Campioni), è il posto che senza dubbio spetta a Nivhek (cioè Grouper) che con MFO ai visuals ha presentato il lavoro ‘After its own death’, con immagini di infinita bellezza di Murmansk, ritraendone la staticità dei luoghi e delle persone sotto una neve perpetua che tutto avvolge ed isola, perfetto contrappunto alle maliconiche musiche di Grouper. Purtroppo non si può dire altrettanto dell’altro progetto audio-video, andato in scena subito dopo, di Vincent Moon alle immagini e Rabih Beaini alla musica. Minestrone di immagini di riti sciamanici e umanità varia sotto effetto di sostanze psicotrope in Brasile: piuttosto caotico, senza un efficace montaggio che fornisse fluidità e forza come invece riusciva a fare, con quello stesso immaginario, Cut Hands, e soprattutto le musiche di Beaini erano molto poco legate alla scansione delle immagini.
Altro Campione a cui inchinarsi è Bill Drummond, dopo avere assistito alla proiezione del docufilm ‘Waking Up Tomorrow and All Music Has Disappeared’, che in qualche modo (in modo comunque affascinante) racconta il passato ed il presente della sua vita, passando per KLF, naturalmente, ma soprattutto ci rende l’immagine di un personaggio di assoluta genialità, il cui racconto all’interno del film coinvolge completamente. Dopo la proiezione, il suo intervento in carne ed ossa è stato in pratica la continuazione del film, rapendo il pubblico presente e trascinandolo attivamente nel suo tsunami situazionista.
Poi, tutti a Nowa Huta, prima per vedere Lanark Artefax ed il nuovo atteso show A/V di Lee Gamble nel palazzo di epoca stalinista che ospitava l’amministrazione delle famose acciaierie. Se non fosse stato per la visita al palazzo, tutto quello che mi ricorderei sarebbe una lunga serie indistinta di ritmi ultra-spezzati (ed ultra-sentiti) fino al parossismo, soprattutto nel caso di Lee Gamble, per la cui performance, per essere corretti, si dovrebbe parlare di arte concettuale, il che è tutto dire.

Ancora a Nowa Huta, in altra location, doppio appuntamento d’eccezione: Ben Frost e a seguire Einstürzende Neubauten.
La musica di Ben Frost è sostanza stupefacente, per fortuna ancora non inclusa nelle tabelle delle droghe vietate. Il suo nuovo lavoro proposto dal vivo vede un Ben Frost come sempre in tensione perenne, che spinge le sue macchine e la sua chitarra verso territori ora più intimistici e senza i vertiginosi crescendo e stacchi dei lavori precedenti, ma esplora infinite profondità in cui lasciarsi risucchiare e perdersi. Nessun burn-out, solo assuefazione: quando finisce, se ne vorrebbe ancora e ancora e ancora.
Gli Einstürzende Neubauten iniziano con ‘In the garden’ e da lí fino alla fine è una celebrazione della storia di questo gruppo unico. Con gli Einstürzende Neubauten ci sono cresciuto, ed è come ripercorrere in due ore di show tutta la propria vita, album dopo album. Blixa non è (e non potrebbe esserlo) più il folle ed iconoclasta ‘geniale dilettante’, ma un performer che sul palco trasuda la sua vita da outsider, la cui sagacia, ironia e pathos, affilati nel corso di decenni, rendono inutile l’analisi del resto dello show.
Altrove ancora, Robin Fox presenta il suo nuovo laser show, ‘Single Origin’, ma riesce addiritttura ad annoiare di più del suo precedente spettacolo ‘RGB’.

Tutto questo é successo al di fuori di quello che molti considerano il cuore del Festival, cioè il Forum, che quest’anno, oltre ad offrire nuovi spazi, ha in qualche modo riacquistato vivibilità ed un pubblico più maturo.
Qui in tre lunghe notti se ne sono viste di tutti i colori, ad iniziare da Varg, sul palco giusto prima di Nina Kraviz, grazie ad una scaletta schizofrenica: in totale solitudine sul palco, maglia Burzum d’ordinanza, lo show è stato più che altro assistere alla ventina di sigarette fumate a catena dal vichingo svedese durante il suo slot di un’ora. Ad un certo punto ha iniziato anche passeggiare intorno alla consolle, mentre le macchine andavano da sole: evidentemente non aveva la minima voglia, e lo amo anche per questo. Sempre nella sala principale del Forum nel giro di poche ore si sono esibiti altri Campioni: prima mondiale di Rainforest Spiritual Enslavement (il progetto ‘ambient’ di Dominick Fernow/Prurient/Vatican Shadow) coaudivato da un altro musicista di cui non sono riuscito a sapere nulla (e non era Silent Servant, purtroppo) ed allo show di Zonal, ossia la nuova incaranzione di Techno Animal, ossia Kevin Martin e JK Broadrick INSIEME. Che hanno fatto quello che dovevano: suonare come l’equivalente di una colonna di Caterpillar al lavoro. Alcune volte i sogni si avverano.

E poi a seguire, come se non bastasse, Stingray e Bone in un back to back da mille e una notte.

Incredibilmente, menzione dovuta per Holly Herndon, già vista in una interminabile serie di concerti irritanti ed imperdonabili, che ha tirato fuori un coro di sei elementi (condotto nientepopodimeno da Terre Thaemlitz) e un concerto che, sebbene mi rendo conto sia difficile crederci, è stato eccellente. (A questo punto potrei spendere parole di apprezzamento anche per il concerto di Lauren Halo di qualche giorno prima, un’altra artista per cui non ho avuto mai molta stima, ma che in qualche modo per la prima volta se l’è cavata).
Poco altro al Forum, per quanto mi riguarda: attendevo di vedere Jlin post-footwork, ma il suono è stato totalmete sommerso da un continuo enorme rombo del basso fuori controllo che ingoiava tutto, portandosi via dinamica e particolari. La ballerina indiana (?) che tirava rose dal palco, non ha certo aiutato.

Di nuovo fuori dal Forum, per la chiusura: Jon Gibson ha dato prova di essere uno dei grandi nomi del minimalismo storico di scuola americana con un ensemble di quattro elementi ed i suoi strumenti a fiato e gran finale con GAS con i suoi droni ibridati e la proiezione su grande schermo del relativo video, realmente stato dell’arte. Menzione finale dovuta per Dominick Fernow e la sua installazione sonora all’interno della serra delle piante esotiche all’Orto Botanico: in una enorme cupola in vetro ed acciaio, in mezzo ad una e vera propria foresta tropicale, la sonorizzazione di Rainforest Spiritual Enslavement era il perfetto ed inquietante complemento sonoro.

L’Unsound è un festival che sono sicuro venga generato in qualche cameretta mentale del suo Direttore Artistico e del suo team con le migliori intenzioni, ma che esce un poco ammaccato nel crash-test con la realtà: ci si  aspetterebbe che dopo 15 anni alcuni problemi nella pratica e nella teoria fossero già stati superati, ma non sempre è cosi. Ma a farlo emergere da una marea di altri festival, che hanno peraltro gli stessi ad anche maggiori problemi, e a dargli lo status di un appuntamento da prendere in considerazione è il  suo desiderio (e la testardaggine) di provarci, di sorprendere (e di riuscirci ancora), nonostante i forti condizionamenti, e le conseguenti contraddizioni che ne derivano, nonostante la dura realtà e il bisogno di compromessi per sopravvivere alle dure leggi del business

Filippo Vetro

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