Lo scorso 3 settembre in molti abbiamo celebrato il quindicesimo anno della morte di James Stinson ovvero la mente principale dietro il progetto Drexciya, prematuramente scomparso a 32 anni per complicazioni cardiache legate ad una malattia che lo affliggeva da anni. Una malattia che non gli aveva impedito di vivere intensamente mettendo al mondo ben sette figli ed una quantità di musica impressionante con diversi pseudonimi.
Nella necessità emotiva di ricordare, ci siamo affannati a celebrare la sua musica cercando di riascoltare il massimo possibile di quello che aveva prodotto e da questo ascolto compulsivo ci siamo resi conto ancora di più del vuoto che la sua assenza ha lasciato nel panorama della musica elettronica post rave e techno.
E’ importante per me mettere l’accento sulla parola ‘post rave’ perché, dalla nascita della techno verso la metà degli anni ’80 e la sua successiva inclusione nel fenomeno rave di fine anni ’80 e inizio anni ’90, si è creato un filone di musica elettronica parallelo a quello dell’elettronica storica, da Morton Subotnick a Suzanne Ciani fino ai Kraftwerk e a Karlheinz Stockhausen, solo per citarne alcuni. L’elettronica di cui parlo è invece quella di migliaia di giovani che, dalla fine degli anni ’80, hanno incominciato a produrre musica con strumentazione elettronica senza riferimenti stilistici precisi. Lontani dalle ricerche, a volte accademiche, a volte cerebrali degli autori citati prima, questi ragazzi hanno filtrato nelle macchine la loro inquietudine e le loro speranze cercando di rappresentare il veloce divenire del presente e accorciare le distanze con il futuro.
L’elettronica post rave e la techno sono state soprattutto un portale di scambio con il futuro. Il tentativo inconscio, a volte disperato, di agguantare il futuro e trascinarlo nella quotidianità per viverlo il prima possibile. Ma invece di usare messaggi diretti come i testi, classica modalità comunicativa della canzone, questi ragazzi hanno usato il suono puro, ritmico e melodico, sia per meri limiti compositivi (pochi di questi produttori sapeva suonare nel senso classico del termine), sia per scelta. Una scelta istintiva e irrazionale perché di fatto non puoi rappresentare il futuro. Puoi intuirlo, magari prevederlo, forse accennarlo pensando di coglierlo, ma non delinearlo con precisione. Eppure la grandezza di questo movimento è stata proprio quella di consegnarci degli squarci sonici di futuro pensando di dipingere il presente. Lory D nelle note del suo album ‘Antisystem’ parlava di “un ricordo del presente in tempo reale” e Derrick May intitolò uno dei suoi brani più famosi “It is what it is”, ma entrambi hanno rappresentato il futuro come pochi altri.
Fin da quando mi sono avvicinato a questo stile, dopo anni di funk, new wave ed electro, questa visione mi ha folgorato. Era come la chiusura del cerchio. La massima espressione delle potenzialità espressive della musica che abbatteva gli steccati del genere, della struttura della song e soprattutto della connotazione razziale del musicista, il tutto con una visione futuristica perfettamente fruibile. L’immersione nel suono puro della strumentazione elettronica (synth, drum machine, computer, ecc.) generava musica in cui si annullavano le differenze che da sempre hanno contraddistinto la musica del secolo scorso pur mantenendone alcune qualità: la fisicità del funk e dell’electro e la sperimentazione della new wave. I Funkadelic si mischiavano agli Ultravox, Bootsy Collins con John Foxx in un modo però nuovo, senza schemi predefiniti, ma magari prendendo elementi da generi di passaggio come l’EBM o casuali come l’Italo, ma mai con risultati derivativi.
Questo andare oltre le razze e le loro culture era ancora più evidente nei musicisti techno di colore di Detroit. Esposti da sempre ad una multiculturalità musicale variegata e molto spesso reazionaria, dalla Motown agli Stooges, dai Funkadelic ai B52’s, hanno espresso con la loro musica il loro essere stranieri in una patria solo apparentemente loro. Detroit è stata soprattutto una città dormitorio per le principali case automobilistiche americane che avevano lì le loro fabbriche ed è diventata quasi una città fantasma dopo il trasferimento di molte di queste fabbriche in luoghi più economici, generando abbandono e disperazione. Uno stato sociale che ha reso ancora più evidente la realtà della schiavitù indotta e della difficoltà dell’integrazione in un mondo fondamentalmente non loro. Emergeva quindi un senso di spaesamento straniante che, non a caso, era uno dei temi principali della musica dei Drexciya (vedi la copertina interna della raccolta “The Quest” con la mappa della storia della schiavitù e la speranza del “Journey Home” nella Mother Land, l’Africa). Un afro futurismo istintivo senza necessariamente basi intellettuali. Un urlo di dolore che si trasformava in suono delle macchine rese umane dall’umano stesso. “Machine Soul” come magistralmente scrisse Jon Savage su Hyperreal in uno dei primi articoli di approfondimento serio sulla techno agli inizi degli anni ’90.
Ed in relazione a questa istintività produttiva possiamo dire che la techno, come molta altra elettronica post rave, è musica inconscia. E’ lo svolgimento sonoro di un risveglio. Rigenerati dal lavoro inconscio del cervello durante la notte, siamo pronti a riversare quello che abbiamo elaborato nel quotidiano. Se poi è arte, ci tocca nel cuore, nel corpo, dando sensazioni dirette e a volte non spiegabili razionalmente. E questo spiega la diffusione incredibile della techno fin dagli inizi senza praticamente nessun veicolo promozionale classico. Era il segnale del cambiamento che poi è diventato il segnale della creazione di un nuovo linguaggio sonoro. Un linguaggio ormai fortemente radicato, seppure nella sua difficoltà di interpretazione profonda legata proprio alle sue origini più fisiche ed emozionali che intellettuali, razionali e direi storiche che ancora oggi rendono la techno un monolite kubrickiano da decifrare.
James Stinson è stato uno dei maggiori artefici di questa modalità espressiva rifuggendo molto spesso le strutture musicali, già molto poco presenti nella techno, in favore di un flusso sonoro continuo, ipnotico. Molto suoi brani sono imperfetti a livello produttivo proprio per alcune lungaggini non necessarie o magari per sviluppi troppo brevi, ma sono l’esempio perfetto di quanto detto finora. E questa sua imperfezione geniale ci portava a continuare questa ricerca. La sua musica era come un invito a procedere, al non fermarsi. Per questo la sua assenza brucia ancora di più. In molti eravamo sempre pronti a raccogliere il testimone ideale di questa corsa verso il futuro per continuare a farla, senza la necessità del traguardo finale.
Non è facile raccogliere l’eredità di qualcosa che è indefinito e con radici nel nostro inconscio, ma la musica è anche testimonianza fattiva tramite le sue registrazioni e, rifuggendo approcci calligrafici (vedi ad esempio le centinaia di cloni del sound di Gerald Donald, l’altro Drexciya), le possibilità ci sono. Basta riprendere quelle visioni di futuro e di analisi sociale e renderle suono, ritmico e melodico, mantenendo elevato il rapporto fra umanità e desiderio di scoperta per far rinascere nuove speranze e nuove emozioni.
Andrea Benedetti