Da poco tornati dalla costa adriatica croata, abbronzati e sicuramente più in forma, con qualche etto di troppo scioltosi per magia, siamo un po’ tutti reduci della “Cura Dimensions”. Anche se pure l’anno scorso ci siamo immersi per benino nelle proprietà attive-curative del festival Made in Uk e Done in Croatia – per la precisione nella provincia di Pola, in Istria – quest’anno i trattamenti intensivi sono stati più efficaci. Con qualche effetto collaterale. Superato.
Innanzitutto, come primo consiglio per una cura ottimale: trovare una posizone strategica al Festival se l’anno prossimo dovesse venirvi voglia di sottoporvi alla Terapia. Dovete infatti sapere che il Dimensions è situato sì a Pola, ma a svariati chilometri dal suo centro storico. Visto che i mezzi di trasporto ci sono, ma latitano (una navetta all’ora che poi diventa la metà delle navette nel week end), sarebbe meglio optare per una residenza più in loco, a Štinjan o addirittura a Puntižela, sede dell’ottocentesca fortezza Punta Christo. Una delle location più affascinanti d’Europa.
Il Festival vero e proprio dura quattro giorni, il quinto “giorno-extra” è quello che fa da apertura monumentale al tutto: i concerti e dj set nella splendida Arena romana nel centro di Pola, quest’anno con Kamasi Washington, Massive Attack e Moodyman. A seguire, una quattro giorni sold out di Cura collettiva con 8,000 persone.
Ma torniamo alla Cura. Uno dei suoi primi effetti benefici è sicuramente l’innalzamento del livello di tolleranza. Ricordatevi che gli Inglesi in versione party, ovvero l’80% del pubblico del Dimensions, sono i massimi esponenti di Sfattanza teorica e applicata anche di più dei nostri vitelloni rivieraschi. Possono essere sbronzi e in botta dalla mattina alla sera, emettere fetori che manco nei peggiori rave vi aspettereste, cadere senza equilibrio per poi rialzarsi subito felici e sghignazzanti, uscire in mutande con pailette e infradito con calzino bianco Nike (sporco) ben incastratoci dentro. Però sono terribilmente positivi, reagiscono da dio anche quando potrebbero evitarlo di fare, sono amichevoli e rispettosi, chiedono sempre “Sorry” anche se estremamente malmessi. Non lesinano sigarette. E sono un pubblico super ricettivo: seguono, ascoltano, cantano, danzano su tutto, ma con senso compiuto, anche quando fuori dalle righe.
Tornando alle giornate festivaliere, il primo giorno al Moat non riusciamo manco ad avvicinarci: lo stage è murato sia fisicamente che metaforicamente e un egregio Pearson Sound procede dritto, preciso, techno mai noiosa o scontata. Effetto collaterale non desiderato? L’impossibilità di scendere tra la calca per il troppo caos. Senso di incipiente claustrofobia mista ad agorafobia. Troppa coda, troppa gente. Il tutto reso ancora più complicato dall’isterico lighting e dai balli convulsi. Pazienza. Ce lo ascoltiamo e godiamo da fuori. Intanto, l’effetto principale della Cura, quello dimagrente, inizia a farsi già sentire prepotentemente: tra un palco e l’altro, le camminate su terreno impervio (terra rossa istriana con sassi) sono serrate e nulla è troppo vicino. I palchi sono otto e dall’entrata principale al main stage ci vogliono venti minuti. Si cammina sempre. Se non si cammina, si balla. O si balla facendo la coda per le bibite. Quattro giorni, minimo cinque ore al giorno.
I picchi curativi in una manciata di nomi: in primis, Larry Heard aka Mr Fingers, presente in versione live dopo 20 anni con un set di hit da cantata collettiva, quasi tutte tratte da Love’s Arrival. Sul palco anche Chad White, suo vocalist originario. Poi, l’apice del benessere durante “The Sun can’t compare”.
Altra botta di salute, Dj Stingray al Moat, con la sua divina electro oscura e pulsante alternata a legnate prettamente techno, il tutto variando di continuo, senza mai strafare. E il gran momento di estasi durante Digital Tsunami di Drexciya.
Dave Mancuso parlava coinvolgere i ballerini fino a farli piangere, ecco qui il feeling era del tipo: “ora salto sul palco e t’abbraccio”. Forse musicalmente nulla di nuovo, ma quando il vecchio suona così illuminante e fresco ancora oggi, bisogna porsi delle domande senza pregiudizi o ipercriticismi vuoti.
Altra scudisciata di benessere, il producer zagabrese Petar Dundov. Da anni oramai alle prese con set tranquillini filo tech-house, già lo scorso Dimensions aveva stupito per gusto ed equilibrio. Questa volta ha fatto di più. Ha fuso electro, trance nordica, dub, house e techno in un’amalgama ultra danzereccia e imprevedibile, riempiendo il dancefloor di esaltati nell’arco di una manciata di tracce. Buona prova anche per Virginia sul palco del Void, con gli amici di vecchia data Steffi e Dexter.
Dalla voce ricca e vibrante, Virginia dispensa un live frizzante fatto di elektro funk, acid mista a house d’atmosfera, con Steffi corista, molto divertente da viversi (e ballarsi).
Noi vorremmo raccontarvi anche degli effetti lenitivi dell’esaltante house di Jeremy Underground, il mood positivo e mattacchione di Moodymann, la techno pazzerella di Marcelus Pittmann alternata a cantatoni Chicago; l’r’nb futuristico, jazzato e asimmetrico di Hiatus Kayote, l’iperpoliedrico Gilles Peterson e il suo set pindarico, Awesome Tapes From Africa (live di giorno alla spiaggia), a fare sound con sample presi da cassette; della stilosa apertura serata di Massimiliano Pagliara, salentino regular guest del Berghain, uno dei due Italiani in cartellone. L’altro è Fausto Sinesi, l’art director del Dude Club di Milano, qui come Samantha. E come non menzionare gli spassosi Soichi Terada e Hunee, apoteosi delle varie sfumature di house più goduriose possibili e dell’allargamento dei sorrisi del 90%?
Vorremmo non essere rimasti delusi, a malincuore, dalla dalmata Miss Sunshine, presenza molto interessante nella scena techno europea attuale. Sorprendente alla chiusura dell’anno scorso, piatta e noiosetta a questa edizione, è stata penalizzata anche dal palco meno fortunato “Arija” – stage ospitante dj set privi di interesse. Ottima qualità, ma una certa piattezza. Troppo fredda.
Octave One ci hanno lasciati perplessi, deludendo le nostre aspettative su un live potenzialmente vivacissimo e, in verità, a tratti fin troppo tamarro. Dj Fettburger & Dj Sotofett ci hanno intrattenuti rendendo le danze piacevoli con i loro classiconi house; e mettendoci pure voglia di chiacchiere come fossimo al bar, cosa sempre sospettosa. Quindi sì, riteniamo che le loro 9 ore di dj set allo stage Stables siano state eccessive. Richie Hawtin – oramai da qualche anno privo di estro e magnete per folle burine croate e italiane – e Rodhad – lo sciabolatore cieco – li accoppiamo mettendoli nella stessa categoria quella del “Tiriamo un po’ l’orecchio, poi passiamo avanti, in ricerca di qualcosa di davvero interessante e magari pure divertente, va’!”.
Ci sarebbe da scrivere ancora a bizzeffe sugli effetti curativi di altri non nominati. Noi, a questo punto, non possiamo che invitarvi a provare di persona la Cura Dimensions 2017. Poi, fateci sapere se ha funzionato. Noi la ritenteremo.
Divna Ivic