Accettare inviti inattesi può risolversi in vari modi, tuttavia con il tempo si impara a rifiutare praticamente tutto quello che si traduce inevitabilmente in file, braccialettini, borselli, cartellini appesi al collo di gente che se la crede, gettoni per consumare, campeggio, parcheggiatore abusivo, ed altre simpaticherie di natura organizzativa.
Vagliando rapidamente che non si trattava di nulla del genere, ma di un evento in prima serata dall’impegno modesto, che si sarebbe svolto al Berghain nel corso delle sere del fine settimana, decido di confermare questo accredito vacante per il primo appuntamento.
A L’ARME! A dir la verità avevo notato i manifesti in strada, più che altro avevo notato la mancanza dell’accento sulla A, come andrebbe espresso correttamente in francese: à l’arme!
Non guardo neppure il programma del festival, per il piacere di potermi sorprendere ed ascoltare quanto proposto senza avere alcuna infarinatura, salvo poi scoprire che non conoscevo comunque nessuno a parte Broetzmann che suonerà sabato e Mieko Suzuki, già resident all‘Ohm (parte del complesso del Tresor).
Piazzata sin dall’inizio in consolle con il suo inconfondibile taglio da punk terminale, appare subito evidente che la sua presenza è di natura riempitiva, atta ad introdurre la serata con delle stesure di droni, e non come di consueto ad animare una pista da ballo. In seguito si rivelerà addetta anche alla marcatura degli inframezzi, tramite stacchi noise, selezioni d’ambiente, e perchè no, anche sobrie casse dritte scondite, all’insegna di un’elegante semplicità, affine allo scopo conferito.
Dopo una presentazione piuttosto prolissa da parte di colui che sembrava essere il curatore dell’evento, finalmente appare questa violinista canadese: violino chiaramente elettrificato, collegato ad una pedaliera, microfono per la voce. Attacca subito con delle strutture ripetitive in delay, marcate da accenti. Sebbene traspaia qualcosa di pop, non ci troviamo vicini all’incisività gitana dei Balanescu che rifanno i Kraftwerk, ma neppure si riscontrano sfasamenti alla Steve Reich, nonostante gli evidenti richiami minimalisti. Philip Glass mi è parso invece il riferimento più evidente, con tanto di giochi di battimenti, e un opportuno uso del glissando. In particolare una traccia pizzicata ricordava addirittura l’ammiccante predisposizione orchestrale stilizzata dei primi dischi dei B12 su Warp, senza naturalmente manifestare alcun ricorso ai loro arrangiamenti ritmici.
Nei pezzi in cui interveniva il cantato, e gli strings si aprivano in modo prolungato, il tutto prendeva una piega meno arzigogolata, più modernista popolare, che veniva enfatizzata dal battito in quarti provocato dal suo scalpitio: tramite un vigoroso e costante pistonaggio del tacco sul palco, azionava infatti un kick drum tramite quello che pareva essere più un trigger dinamico che un microfono piezo.
Aveva pensato di abbinare quello stivaletto marrone scamosciato ad un vestito verde leggero e ampio, che sebbene non fosse troppo corto, durante una sua esecuzione da seduta ha dato certamente modo ai signori in prima fila di sapere o meno se portava le mutande, alla faccia del posto in prima fila della RAI e del suo canone.
“It’s weird to play seated”, ha commentato la signorina Neufeld alzandosi dalla sedia, forse resasi conto dell’accaduto, o quantomeno della faccia di quel buongustaio incamiciato col codino e la fronte sudata piazzato davanti a lei che la fissava inebetito, come uscito da un fumetto di Edika.
Dopo il break il palco viene invaso da un sacco di gente, donne col violino, tastiere, tecnici… ma quanti sono? Inizio lirico dopo i preparativi, attacco improvviso di basso ad un volume un pò troppo alto, con qualcosa di vagamente Pink Floyd che monta in quel giro dalla sonorità soffusa, e malgrado i virtuosismi della violinista con la frangia che non risulta nel programma, raggiunge il suo culmine con l’attacco di voce lamentosa del tastierista finto Federico Fiumani, spedendomi dritto al bar.
L’ambientazione va per le lunghe e se dapprima sembrava solo essere un tentativo malriuscito di omaggiare gli Swans, poi emerge addirittura un qualche cosa di gregoriano. Allontanandomi verso la gabbia in fondo alla sala, per non subire ulteriormente la risonanza maldomata dal fonico, mi aspetto da un momento all’altro di poter udire una messa in latino, in mezzo a quella navata centrale di cemento. L’impressione era quella di trovarsi in un viaggio in traghetto con gli Enigma e gli Atahualpa, con queste zufolate di tastiera vaporose, mentre l’assenza di una parte ritmica e alcune discrepanze negli attacchi di quella che poi ho scoperto essere Jessica Moss, rendevano quello che avrebbe voluto essere un rituale paranoico post Joy Division una sorta di gelato sciolto.
La performance finale del cantante, portatosi nel frattempo in posizione centrale, risuona con la sua pretesa estensione vocale in un crescendo armonico quasi a cercare l’incipit del phatos di questa specie di dubbio rituale. Ah, pare fosse il loro debutto: attenzione a non confondere dunque il loro materiale inesistente con quello della rock band omonima. Potrete in ogni caso attendere con ansia la loro tournée per approfondire, invitando magari Lindo Ferretti.
Dopo la messa Meako decide di spezzare con una cassa dritta per risvegliare le coscienze, mentre sul palco si prepara il piatto forte della serata: Fire! & Oren Ambarchi. La presenza di un sax baritono è quantomeno rassicurante. Il batterista non è certamente quello di José James, ed attacca con un’impostazione piuttosto rock. Chitarra seduta al tavolo con drone machines e distorsori di disturbo, basso di accompagnamento e sax virtuoso la formula. Da quel tubo invecchiato baritono escono alcuni ululati, senza eccessive modulazioni, la sonorità è nel complesso ben amalgamata.
Spipettamenti dell’ancia e bofonchiamenti, stacchi di batteria, si alternano a momenti di crescente brusio di fondo provenienti dal tavolo del chitarrista che si dava da fare con le distorsioni. Mats Gustafsson sassofon ad un certo punto molla lo strumento e prende a manovrare delle scatoline nel tavolo adiacente, creando dei droni brulicanti che parevano contenere campioni del suo precedente insufflamento. Qualcosa di realmente improvvisato stava accadendo, e l’apice è stato raggiunto dal cambio di strumento da baritono a basso. Non è facile vedere gente esibirsa con un sax basso: quasi come per il trombone servono una grande capacità polmonare, e un notevole sforzo di diaframma per poter produrre dei suoni credibili. Quella gigantesca proboscide cromata scoppiettante e la sua manipolazione hanno dato il meglio dell’esibizione, mentre in seguito il ritorno nei ranghi più rockeggianti con l’uso di codificate rullate di batteria e ululati in stile psichedelico nostalgico Ummagumma 1969 chiudevano la performance.
Innegabile che influenze pop e rock hanno pesantemente contaminato tutta la programmazione della serata, con miscelazioni varie, più o meno riuscite, e rari momenti di apprezzabile delirio.
Leggendo alla fine per la prima volta la presentazione noto che vengono invece chiamati in causa addirittura Novalis, Klee, Blake, Breton per introdurre l’evento. Vai a sapere.
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