Gira in rete un’illustrazione ingenua in cui il mondo moderno (cementificato, inquinato, sovraffollato, violento) è separato da un crepaccio da un mondo ideale (verde rigoglioso, sole al tramonto, arcobaleni e un soundsystem con la gente che balla). I due mondi sono collegati da un ponte sospeso di corda; l’illustrazione ritrae anche un freak che, giunto sul lato “ideale” si accinge a tagliare il ponte mostrando il dito medio agli sbirri che lo inseguono.
L’ignoto autore di quest’opera (catalogato dai critici d’arte del 2533 come “anonimo della scuola di Glastonbury, tardo secolo XX“) ovviamente vede solo bianco o nero e non ha mai frequentato i bagni chimici l’ultimo giorno di un festival qualunque. Alcuni dei suddetti critici (tra i più arditi) hanno suggerito un’interpretazione dell’opera in senso topografico, in cui ogni manifestazione inquadrabile nel movimento dei festival musicali, punto fermo del divertimento giovanile della nostra epoca, può essere posizionata in un punto o nell’altro dell’illustrazione, come in un quadrato semiotico.
Dal lato urbano collocheremo quindi eventi come l’Atonal, il Roadburn, il Supersonic, ambienti post industriali e grande attenzione alle scelte stilistiche in line up e alla qualità degli impianti. Dal lato bucolico metteremo ad esempio l’islandese Secret Solstice, i free festival britannici e quel festival heavy metal che si teneva su una nave in crociera nel Mar Baltico, adesso non ricordo come si chiamasse. Esperienze da vivere con gli amici, in cui i ricordi non si limitano ai concerti, anzi ne sono forse la parte meno significativa.
In base a questo ragionamento, il Terraforma lo posizioniamo sul ponte che separa i due mondi.
Il festival, a cui si accede da uno scenografico sentiero immerso nel bosco, di notte illuminato da neon posti a formare dei triangoli che richiamano la forma del main stage (il ponte dell’illustrazione, messo in pratica) funziona infatti benissimo dal punto di vista estetico. E si respira un’atmosfera di rilassatezza, di svacco sotto le frasche, di comunione cosmopolita con i numerosi stranieri ospitati dal campeggio, con i quali ci si scambia grandi sorrisi: si nota subito che sono qui per l’esperienza più che per i nomi in cartellone. E infatti, quando i nomi sposano questo atteggiamento funziona tutto alla perfezione.
Charlemagne Palestine al pianoforte nel prato accompagnato da un’orchestra di grilli (ho incrociato per un istante lo sguardo di quest’uomo, ho visto a occhio nudo le lune di Saturno), la sonorizzazione dei film di Vincent Moon da parte di Rabih Beaini nella stupenda area secondaria (Indonesia sullo schermo, Indonesia anche fuori), i set sempre in quest’area in una torrida domenica pomeriggio di Still (Dracula Lewis goes to Jamaica) e soprattutto (vincitrice morale del festival) Beatrice Dillon. Lei entra a pieno diritto nel ristrettissimo club di chi sa farmi ballare come un invasato per due ore sotto cassa senza interruzioni in condizioni atmosferiche estreme, pur sapendo a malapena appoggiare la puntina sul vinile: selezioni di una sensibilità davvero rara che spaziano dalla dub techno all’afrofunk passando per cose (credo) turche e cubane. E la tecnica diventa improvvisamente un argomento di discussione sterile e noioso.
Il resto del programma ha allineato performance senz’altro valide come i dj set di Healing Force Project (fra ambient e beat rilassati, ma avrei preferito presentasse live il suo ultimo, stupefacente album Perihelion Transit) o di Dynamo Dreesen (dub techno dal grande groove purtroppo interrotta da un nubifragio che mi ha lasciato fradicio e impossibilitato a continuare nel pantano, un momento molto divertente però). Adrian Sherwood ha fatto quel che ci si aspettava da lui: una carrellata di materiale On-U Sound classico seguita da un’ora di cazzeggio che tradiva il desiderio di birra al pub sotto casa (festa in spiagga a Brighton: mancava solo il big beat), mentre le delusioni sono arrivate dall’attesa Helena Hauff (comincia bene ma si impiglia su della mediocre techno da club sadomaso della Reeperbahn, non certo aiutata da un impianto diciamo imperfetto, piace molto però alla gioventù paesana accorsa in massa il venerdì sera) e dalla simpatica dilettante Paquita Gordon chiamata al difficile compito di suonare al tramonto dell’ultima serata di festival (a mio parere ha compiuto delle scelte musicali ruffiane o irrilevanti, ma osannate dal pubblico con meno pensieri: i miei giudizi sono squisitamente soggettivi). Ci chiediamo quindi se nelle prossime edizioni il festival saprà chiarire da che parte decide di stare (entrambe, per motivi diversi, ugualmente valide): che sul ponte si rischia di finire nel vuoto, se il freak lo taglia, o agli arresti, se gli sbirri saranno rapidi.
Andrea Cazzani
In & Out a cura di Simone Deambrogi
OUT:
1) L’impianto del main stage di questa edizione è stato il principale elemento negativo: penalizza i set come quello di Helena Hauff e sopratutto il live di un Biosphere forse non in serata, ben sotto le aspettative. Tarato evidentemente per la buona resa delle performance pomeridiane è sembrato non adatto per quelle seral-notturne. Caso a parte Donato Dozzy che “per far suonare l’apparato nel migliore dei modi possibili” ha messo del suo, fuor di metafora.
2) La mancanza di un piano B in caso di pioggia. Vero è che la sfortuna si è abbattuta in modo crudele per una mezz’ora abbondante sul Terraforma con un classico e terribile temporale estivo, tuttavia pensare a soluzioni alternative per salvaguardare l’evento è fondamentale. Perchè, ad esempio, non utilizzare nel caso gli spazi e le coperture dei concerti a Villa Arconati? Sembrano problemi minori, ma c’è una lunga lista di festival storici andati a monte per colpa della pioggia, occhio a sottovalutarli!
3) Uwe Schmidt: nei due progetti presentati, uno in coppia con Burnt Friedman e l’altro con Tobias si è limitato a ribadire i capisaldi sonori della shuffle beat di Colonia e di una certa minimal techno teutonica. Non proprio out però un compitino facile facile, svolto per la sufficienza.
4) Francesco Cavaliere live: per poterlo spiegare alla “casalingua di Voghera” viaggiando sul filo della provocazione, si consiglia di immaginare il vocalist Franchino che con la mimica teatrale e i trascorsi sintetici di Alberto Camerini, propone il Piccolo Principe in chiave futurista.
IN:
1) Il festival in sé. Chi scrive non vuole un Terraforma qualsiasi, ma il Terraforma al massimo delle sue potenzialità: una manifestazione che in modo sempre più convincente e autorevole, vinca la competizione con le altre rassegne internazionali entusiasmando il pubblico. Avanti dunque nella direzione giusta ma guai a sedersi sugli allori o abbandonare l’autocritica.
2) L’atmosfera che si crea e vive ad ogni edizione, dove la musica è un aggregante maggioritario ma non esclusivo, lo zoccolo duro dei “terraformiani”, i controlli della security eseguiti a misura di homo festivalierens (gioiello rarissimo da tenersi stretti stretti) ed infine l’incantevole cornice del complesso Arconati la cui bellezza è in grado di far ammansire perfino la Salini Impregilo.
Sul ponte di corda sospeso:
Lee Gamble djset: un’esibizione che ha suscitato pareri contrastanti, basati sul concetto di dj set, sulla sua decostruzione e sul suo ecclettismo. Il non facile compito di trovarsi a metter musica tra le 23.00 e l’ 1.00, momento delicato di passaggio tra l’ascolto pomeridiano e il ballo serale, ha fatto in modo che se da un lato coraggio e consapevolezza di determinate sonorità siano state il cavallo di battaglia della sua prova, dall’altro la gestione del set nelle due ore ha creato momenti di vuoto e scarso feedback con la folla.