Nel 1990 uscì, tra lo sconforto dei puristi, un disco intitolato Torture Garden, a firma Naked City: un progetto che faceva capo a John Zorn, coadiuvato da musicisti di fiducia della scena downtown newyorkese, dalla variabile impazzita Fred Frith e da uno sconosciuto cantante (?) giapponese di nome Yamatsuka Eye, presentato come leader degli altrettanto sconosciuti Boredoms. Fu il primo disco di mia conoscenza a legittimare il metal estremo e il grind presso un pubblico che di solito non ascoltava solo quello, per di più realizzato da musicisti dalla reputazione impeccabile, quindi da tenere in assoluta considerazione. Inutile dire che tutti gli appassionati dell’epoca di musiche non convenzionali elessero questi sconosciuti Boredoms a band di culto senza averli mai sentiti (cantante proveniente da un luogo considerato esotico/prescelto da un guru dell’underground per un suo progetto senza compromessi = sono fighi per forza, un po’ come succede negli ultimi anni con gli indonesiani Senyawa).
Inizia quindi la caccia ai dischi. Costose importazioni giapponesi ordinate al negozio di fiducia, liste della spesa consegnate a ignari conoscenti in partenza per Londra o New York, l’amica trasferitasi a San Francisco che recupera tutta la discografia nel semileggendario Amoeba Music e ti spedisce le cassette per posta, insomma tutto il repertorio.
Immaginate anche quanto potesse crescere l’hype (ancora non si diceva così) intorno a questa figura quando si venne a sapere che prima dei Boredoms Eye militava negli Hanatarash, formazione industrial iconoclasta bandita da qualunque club del Giappone per aver distrutto palchi con la ruspa e lanciato bombe molotov in mezzo al pubblico (“gli spettatori dovevano firmare una liberatoria per sollevare la band da qualunque responsabilità per danni fisici subiti accidentalmente” – e l’anarcopunk del sabato sera gongolava). E – sorpresa – i dischi tanto faticosamente racimolati (Pop Tatari! Wow 2! Chocolate Synthesizer!) non suonavano come previsto. Molto più accessibili rispetto alle iperboli inventate dai recensori dell’epoca (ricordo un: “come gettare una mazza da baseball nel bel mezzo della volata del giro d’Italia”), sono sì massimalisti, schizzati, imprevedibili, beffardi, ma anche insospettabilmente musicali, come un Frank Zappa alle prese con del robusto prog-funk ironico e anche dotato (a tratti) di un certo groove. Nulla che orecchie cresciute a hardcore punk anni ’80 non potessero accettare, ma comunque lontani dalle influenze che all’epoca andavano per la maggiore nella musica occidentale e quindi molto freschi, nuovi, liberi.
Da lì in poi, i Boredoms hanno fatto di tutto (o meglio, hanno proseguito lungo la propria linea, incuranti) per non essere inquadrati in uno stile preciso, scostandosi sempre di più dalle sonorità con cui si sono fatti conoscere: i brani si dilatano, ripetitivi, alla ricerca del suono primordiale, abbandonano la spastica urgenza espressiva degli esordi. Non che non avessero in nuce i germi di questo aspetto meditativo (attenzione: sempre di noise si tratta) nascosti tra le pieghe delle loro mille influenze: ma sono stati separati, distillati, estratti, portati a maturazione e infine presentati. Non è facile avere questo genere di consapevolezza. Ed ecco che vedono la luce dischi che affrontano le profondità della psichedelia come Super Ae o Vision Creation Newsun, che non sono nemmeno lontani dalla remix culture che si afferma nei tardi anni Novanta. Sono uno splendido esempio di band sui generis ma perfettamente calata nel contemporaneo, aspetto che diventa ancora più evidente quando nel 2004 pubblicano l’ultimo album di studio (perchè i dischi non li compra più nessuno, giusto?), da lì in poi solo ep di remix (comunque non se ne vedono dal 2009) ed esibizioni live che esaltano l’aspetto performativo. Qui e ora, se non ci sei sono fatti tuoi. Il 7 luglio 2007 all’Empire-Fulton Ferry State Park di Brooklyn, con 77 batteristi disposti a spirale. Il 27 giugno 2015 al Barbican di Londra, dove i percussionisti diventano 88. E, finalmente, dopo questa lunga introduzione che lascia intendere quanto fosse generalizzata e spasmodica l’attesa della performance, il 31 maggio 2016 all’Hangar Bicocca di Milano, nella sala dei Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer.
Presentato come anteprima del prossimo festival Terraforma, palco accessibile da ogni lato, due percussionisti (Yoshimi P-We, icona underground celebrata da Sonic Youth e Flaming Lips, e Yojiro Tatekawa), Yamatsuka ai synth e altre percussioni più un quarto musicista defilato a non meglio definibili computer e oggetti disposti sopra un woofer (autocostruito?). La prima cosa che salta all’orecchio durante un’introduzione in cui i nostri non fanno altro che percuotere dei tondini di ferro è il suono perfetto allestito dai tecnici in uno spazio difficile, non nato per la musica, a dimostrazione che ogni ambiente e ogni volumetria sono amplificabili al meglio (avendo tempo a disposizione: un giorno dedicato al montaggio del palco e due giorni di prove con i musicisti, perfezionisti e lentissimi, mi dicono).
I Boredoms ridefiniscono il concetto di “sperimentazione musicale“: partendo da un massimalismo totalizzante hanno progressivamente sfrondato il loro sound per arrivare a una miscela di industrial, urla tribali (o anche Fluxus), tamburi taiko, i pochissimi richiami a una cosa definibile come “rock” sono allo zeuhl dei francesi Magma. Yamatsuka Eye è forse il primo musicista bello a vedersi mentre suona i synth, non si limita a girare due manopole ma partecipa col corpo all’orgia ritmica, i suoi vocalizzi (e quelli di Yoshimi) assumono caratteri rituali. E il pubblico si innamora o resta basito e ondeggiante, o auspica l’irruzione sul palco di una ruspa carica di molotov. Forse bastano le bombe che sono state scaricate musicalmente, certo che ora le aspettative per il Terraforma, già alte, dopo un’anteprima di questo calibro possono diventare un po’ esagerate. Noi si confida.
Andrea Cazzani