Una delle intro più violente trapassa il marmo dei tuoi vent’anni suonati come un ago lanciato nelle tempie a velocità disumana. Magari dagli stessi Kyactus, che esattamente dodici anni fa si divertivano a mettere fine all’esistenza (vanificando anche due ore del preziosissimo, e ovviamente esiguo, tempo a disposizione prima che la mamma apprensiva rientrasse da lavoro e ponesse fine all’autostima aperion per aver finito ben tre pagine di guida). I veri professionisti usavano la guida, i campioni se la facevano prestare o percorrevano isolati interi per trovare quell’unico pirla del paese col computer in casa che era disposto a prestartela al duro prezzo di farti sentire più inutile di un Goblin per non aver finito il gioco in tre giorni – sequestrando tutti i joystick del vicinato per minimo sei mesi. L’arma segreta che provoca l’ultracidio é un’arpa. Corde sottili che risuonano per tutto il Tempodrom di Berlino con la facilità di chi cammina dalle parti di Besaid dopo aver completato lo sviluppo. Perché, lo sviluppo, tutti i 3.000 e rotti presenti l’hanno finito anche da un pezzo, essendo quasi tutti parte di quella generazione Y di avventurieri che ha sfondato lo schermo e proseguito a testa bassa il pellegrinaggio in giro per Spira, continuando a rifiutare una realtà imposta dal Kafka di turno per poter scrivere la propria storia. E sono pronto a scommettere 300.000 guil che, lì in mezzo, chiunque in quei primi secondi e manciata note ha rivissuto alcuni dei momenti più importanti della propria esistenza come in un flashback, con l’effetto di un ago dorato che risveglia la parte del cuore sopito dal letargo imposto dal mondo post Final Fantasy X.
Dopo quei minuti di estasi e lacrime accennate, tanto pesanti quanto rigeneratori, arriva la suite completa di Jenova con l’epicità di un’evocazione di Shiva. Il sangue scorre. La rabbia pure. La rabbia di aver lasciato la Play Station dall’altra parte del mondo insieme agli amici degni di esser chiamati tali che hanno smesso di sognare. O che non l’hanno mai voluto fino in fondo. Allo stesso tempo gasa. Gasa un bel po’. Vorresti iniziare a saltare palazzi, fronteggiare eserciti o incatenare il tutto in lingue di fuoco come Sephiroth fa su quello schermo. Schermo gigante e strafico che sovrasta l’orchestra. Musica gigante e strafica che sovrasta i rimpianti.
Tutta la furia che hai in corpo trasale e arriva alla retina. Gli occhi si incantano come le orecchie e tutti i sensi sembrano confermarti di aver preso la strada giusta, stavolta senza guida. Un’ulteriore conferma arriva in quella manciata di minuti che rimangono uno dei picchi della mia carriera di consumatore di concerti: dopo i brani tratti dal terzo e quinto capitolo, il carismatico Arnie Roth presenta il prossimo brano e tutti gli esper che hai accumulato sapientemente fino ad ora impazziscono.
Final Fantasy VI, l’episodio della saga a cui sono più affezionato, viene celebrato in un medley che riduce l’esistenza a 8 bit. L’intera vita diventa una fiaba, ti senti ingenuo e svampito come un moguri. Ritornano i ricordi, il tempo si ferma a ritmo di marcia, il presente diventa pixelato e lo struggimento costante in cui sei solito rapportarti svanisce come il castello di Midgar. Nessuno sta meglio di te. Ma proprio quando sembra tutto compiuto arriva la batosta.
Ti rendi conto che la splendida ragazza tedesca seduta di fianco non ricambierà mai il calore dell’Aria di mezzo carattere e, dato che con la sfiga c’è lo stesso rapporto che un currywürst ha con l’ulcera, la suite si concluderà qui e non riuscirai mai ad ascoltare il tema della Catastrofe, il brano di Uematsu che preferisco. Pazienza, la serata é ancora lunga, arriverà una coda di fenice. Tipo il Vamo’ alla Flamenco, con la promessa di avere un solista d’eccezione che, per chi é chitarrista come il sottoscritto, non dico che fa da antidoto ma quasi.
Peccato che la sua performance non è delle migliori, al punto da farti pensare che comprare una daga a Vivi sarebbe stato un investimento migliore. Salutando “la miglior versione mai suonata” in dieci anni di tour, a detta del m.ro Roth, celebrata dal Victory Theme successivo, fa pensare che una parte del budget é stato destinato al sarcasmo.
Da lì in avanti il concerto riprende il volo, con un divertente arrangiamento swing da big band del Chocobo Theme, ben eseguito, e alcuni brani tratti dagli ultimi lavori che, nonostante chiunque lì in mezzo, orchestra compresa, é consapevole del fatto che non non possono reggere il confronto, mantengono comunque elevato il livello dello spettacolo. Così come tutti i brani tratti dai primi cinque episodi, che, come tutto il resto, riescono a emozionare soltanto se hanno fatto parte dell’esperienza (ancora devo rimediare al fatto di non poterne far parte). Pochi minuti per realizzare che non sei il solo ad aver approfittato della pausa per rubare un posto migliore, al che una campana rievoca il trip nel megliore dei modi: la testa fionda a Zanarkand e riporta quell’aura di sacralità che emiziona. L’epicità selvaggia appena conclusa, le musiche del Gran Canyon, un altro paio di brani tratti dagli ultimi epidi e una suite di 18 minuti dei fighting theme al completo sospendono la ragione e ti portano in mondi lontani, talmente lontani che i vaghi ricordi di quello che hai assistito fanno fatica a ritornare. Si va in uno stato di trance totale fino al momento in cui realizzi che é tutto finito. Due ore così intense volate via alla velocità della luce ma allo stesso tempo pesanti come un ricordo.
Rimane solo la voglia di vivere alla grande e ricominciare a credere nelle proprie capacità.
Emilio Larocca Conte