O’, Milano – 21/03/2016 – Da un po’ di tempo non assistevo a un concerto totalmente acustico (ovvero privo di impianto), certo, i walkman utilizzati da Ielasi sono elettrici, a batteria, dotati di una propria minima amplificazione, ma ci siamo capiti, parlo di impianto fisso, mixer eccetera. Michel Doneda è sassofonista sperimentale, di quel tipo che esplora i limiti estremi del suono, nel suo caso estremi verso il basso, al confine col silenzio. Dal suo sax soprano esce poco più che un soffio, un drone agonizzante. I suoi compagni di avventura si adeguano a questa sua caratteristica: i nastri di Ielasi producono flebili cigolii e lamenti, vengono talvolta distribuiti in giro per la sala per spazializzare il suono (di questo aspetto parleremo dopo); le percussioni di Malatesta, qui ridotte a due tamburelli e qualche oggettino, sono strofinamenti e picchiettare di dita.
Un concerto del genere sarebbe impensabile senza la partecipazione attiva del pubblico: stare in silenzio assoluto, non un movimento perchè si sente tutto, richiede un certo impegno. “Partecipazione attiva” per creare il silenzio che diventa tangibile, solido. Sembra un ossimoro ma è ciò che questi musicisti sono riusciti a fare.
L’oscurità per l’orecchio. O meglio la sua negazione, il biancore accecante, il rifiuto di tutte le frequenze. Questa è la tela tridimensionale dove si dipanano le costruzioni del trio, quasi una situazione “di laboratorio” irrealizzabile altrove, basterebbero un barista sbadato o le solite chiacchiere a spezzare l’incantesimo. Doneda si muove spesso, i suoi soffi vengono riflessi dagli angoli della stanza, creano un paesaggio sonoro che più mi sforzo di associare a qualcosa di concreto e più trovo astratto.
I nastri di Ielasi che provengono da “altri luoghi” gli fanno da controcanto. Il risultato è una scultura effimera e fragilissima, che crollerebbe al primo alito di vento.
Musica che viene alla ribalta oggi (in punta di piedi: una cinquantina di spettatori, ma di lunedì) perchè il rumore imperante che ha segnato l’ultimo mezzo secolo ha perso efficacia, si è impantanato nella palude della banalità, non c’è più nulla di davvero “nuovo“, mentre il quasi-silenzio di formazioni come questa sussurra molto più forte. Intendiamoci, musica come questa non potrà mai riempire i grandi club (e nemmeno quelli piccoli a dir la verità, non è la sua dimensione, per manifestarsi ha bisogno della tranquillità e della dedizione più assoluta) ma la sua esistenza è preziosa, la sua fragilità una fotografia dello stato in cui versa la musica oggigiorno.
Andrea Cazzani
Cover: Stefano Gilardino