Nonostante non goda di una particolare vivacità nella programmazione di serate di musica elettronica, per lo meno in rapporto al suo status ed al suo passato ed in confronto ad altre città ad essa più o meno paragonabili, la città di Bologna ospita un festival che, de-facto, è diventato, in otto anni, uno dei festival di musica elettronica (e non solo) di prima grandezza fra gli italiani, se non altro per numeri e dimensioni.
La sua formula si basa sulla volontà di attrarre pubblici diversi, con un cartellone che spazia dai classici superstar-dj fino a nomi eccellenti della ricerca e della sperimentazione. Inoltre, molto fitta è la proposta di altre forme di arte: installazioni, performances e una ricchissima sezione video, per esempio, contribuiscono a rendere ancora più impegnata ed intricata la fruizione del RoBOt Festival.
Anche in questa edizione, è stata rispettata la particolare attenzione rivolta alla scena italiana ed alla promozione di artisti bolognesi, da sempre amati e tutelati da questo festival. Riconfermata anche la divisione fra le due location principali, quella centralissima e spettacolare di Palazzo Re Enzo per la programmazione in prima serata dal mercoledì di apertura alla chiusura del sabato, e due padiglioni del quartiere fieristico: location spettacolare anche questa, ma per motivi non esattamente positivi: I Quartieri Fieristici sono quasi per definizione, anzi, per necessità, posti senza volto e senza anima, cubi geometricamente perfetti ma terribilmente noiosi e spenti. Ma alternative non ce ne sono.
Fortunatamente, questo non ha avuto conseguenze sulla qualità del suono, critica in situazioni di questo tipo: la qualità è (quasi) sempre stata all’altezza, fatto non molto frequente nelle situazioni italiane.
Una eccezione forse la avanzerebbe Kevin Martin, che si è esibito con la sua terapia d’urto The Bug. Le sue sfuriate sul rendimento degli impianti sono ormai leggendarie, ma non è il caso per questo concerto: l’impianto regge egregiamente la valanga, il primo quarto d’ora è in puro stile terrore Techno Animal, poi entra Flowdan, con stacchi di dub pesantssimo, ogni volta spezzati dal toasting di Flowdan.
Poco prima di The Bug, era stata la volta di una altro mestro di dub, Adrian Sherwood insieme al (relativamente) giovane Pinch, ma contemporaneamente, in un’altra sala, uno dei nomi più attesi del festival, Squarepusher, stava per iniziare il suo show, completamente avvolto da una tutina a metà fra schermitore ed astronauta del futuro, con risultati piuttosto fumettistici. Molti si sono dichiarati delusi dalla sua performance, ma in realtà ha eseguito diligentemente e coerentemente quello che si è sentito ne suoi dischi ormai da 20 anni. Il problema magari, se c’è un problema, è che Jenkinson non sia più esattamente una proposta fra le più attuali e fresche. Me c’è anche un altro problema: terminata la prima ora di show, si è tolto la tutina, ha imbracciato il basso e per mezz’ora ha servito una serie di partiture al basso ed elattronica senza capo ne coda, con forte aroma di masturbazione improvvisativa.
Chi sicuramente non improvvisa, è Powell: infatti passa gran parte dei suoi live a gesticolare come un metallaro di quartiere ed a scolarsi birre. Ogni tanto controlla quello che sta suonando, senza sforzarsi troppo, e dopo un’ora di suo concerto, ogni volta, mi chiedo come faccia a non avere necessità vescicali durante il concerto con tutta quella birra che si ingozza. Comunque, bellissimi i suoi singoli, ma sulla lunghezza di un’ora di show, il pupo fatica abbastanza a reggere, musicalmente parlando.
Al contrario lo splendido Samuel Kerridge, sempre molto attento a nuove forme in cui modellare la sua musica (vedi Atonal di quest’anno) si ritrova a sonorizzare il documentario di Iuri Aricarni Bora composto da sequenze fisse, ognuno di qualche minuto, in cui vengono inquadrati magnifici scorci di natura sulle montagne che circondano Trieste, mente soffia la bora. Quello di Kerridge è un concerto di elettronica con inserti di chitarra e voce filtrate, che va al di la di una semplice colonna sonora: è un suono, potente ed affilato come il vento che piega gli alberi come nelle immagini, che trasmette la sensazione di essere proprio lí, nelle montagne, proiettante in tre schermi accostati. La fine è improvvisa, mentre si vorrebbe ancora stare a lungo fra quel vento e quelle montagne.
Appena prima si era esibita Caterina Barbieri, bolognese che gira parecchio per il mondo, che con il suo modulare ferma per un’ora il tempo, con sequenze essenziali e ben costruite, incluso un evidente tributo/cover ad Alessandro Cortini e la sua Sonno. Già, Alessandro Cortini. C’e’ anche lui, non solo evocato, ma in carne ed ossa in questo RoBOt, ed ha lasciato una delle testimnianze più preziose del festival. Ripropone Sonno, con tutto il suo carico di stacchi melodici che arrivano improvvisi e scivolano subito sotto l’epidermide, apparentemente semplici, ma composti con la sapienza e la capacita di un grande musicista. Nonostante la parte video sia mortificata in modo incredibile dalla posizione dello schermo, nonstante lo show sia sul palco minore all’aperto, in mezzo a questa terra di nessuno della Fiera, Cortini suona, ci rapisce, e se ne va.
Non penso di avere nulla di interessante da scrivere sul vuoto di Koreless, o sulla magna pomposità di Siriusmodelselektor, o sul set gnè-gnè di Nina Kravitz, o quale misterioso scopo si nasconda dietro Blanck Mass, ne sulle sicuramente straordinarie performances di Tiga o Trentemoller od altre amenità simili con cui ho perso poco tempo, ed, oltre a dare il premio simpatia a Lee Gamble, che ha suonato live di fronte a 100 persone in un capannone di millemila metri quadrati, non si possono eludere due momenti cruciali del festival, che oltre ai contenuti, sono emblematici dei modi di viversi la musica in questi festival. Coincidentalmente, si tratta dei tre artisti che hanno aperto e dei tre che hanno chiuso il festival.
La triade di apertura è stata spettacolare: l’olandese Jozef Van Wissem, che ha suonato al liuto alcune parti della colonna sonora che ha composto per Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmush, nonostante l’enorme chiacchiericcio incessante (un problema, serio, che sarà presente per tutto il festival: il motivo per cui uno debba comprare un biglietto per poi passare il tutto il tempo a parlare con una pressione sonora di 110Db nel timpani e sfondare quelli degli altri, rimane un mistero insoluto, che sembra caratterizzare particolarmente il pubblico di RoBOt).
Poi, Lawrence English e Biosphere, entrambe figure carismatiche, quasi ascetiche nel loro abbigliamento in rigido ‘total black’, offrono due live diversamente ma egualmente intensi, Lawrence con il suo potente flusso di potenza e suoni stratificati e Geir Jenssen attraverso un excursus del suo repertorio più ipnotico e onirico.
E, alla fine, sul palco della fiera più trascurato dal pubblico, quello esterno, Prostitutes brucia tutto, con ritmi secchi e decisi, iconoclasta al massimo e puro assalto analogico, seguito dal dj set di Helena Hauff di splendida techno ed electro, non finendo mai di stupire per essere sempre al momento giusto con la musica giusta.
Chiusura al coperto con Lory D: essenziale, niente video, niente dei brillantini e fuochi di artificio delle superstars del palco principale, solo lui ed il suo computer, microscopico su un palco che in confronto sembra enorme. Ma ad essere immensa ci pensa la sua musica, solida techno che solo un veterano come Lory D riesce a far suonare come la cosa più attuale che ci sia. Un paio di migliaio di persone lo seguono, nella fattanza ormai generale, per quelle chiusure che ti lasciano in pace con il mondo. Almeno fino alla prossima.
Amedeo Bruni