Sinestesia trascendente. L’esperienza sonica di Lawrence English

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Lawrence English è una colonna portante dell’ambient contemporanea. Media artist, compositore e curatore,  è un personaggio sfaccettato che pone al centro della sua ricerca l’indagine dell’estetica, ponendo questioni sullo spazio, la percezione e la memoria. Come discografico ha fondato la Room40, etichetta d’avanguardia tra le più interessanti degli ultimi anni su cui ha ospitato artisti che come lui mirano all’elemento trascendente del suono.
Ci siamo incontrati sul web per approfondire la sua conoscenza in occasione del suo concerto milanese dell’8 ottobre organizzato da Plunge a Macao, dove eseguirà Wilderness Of Mirrors, l’acclamato album uscito lo scorso anno.

Hai detto che Wilderness of Mirrors è un disco dedicato a coloro che sono svegli. Chi avevi in mente invece per quest’ultimo Viento?

Chi è in movimento. Quel disco è davvero un riassunto di oggetti che si muovono agitati dal vento. Essi esistono spesso in quanto cose inerti, zittiti nella loro immobilità, il vento li trasforma e li articola e ne fa sorgenti sonore.

Il successo del tuo lavoro precedente ha influenzato il tuo approccio all’arte o al suono?

E’ molto gentile da parte tua dirlo. Per quello che vale non penso necessariamente a un progetto in termini di successo o fallimento. Credo di avvertire una qualche pressione, una tensione e il conseguente sfogo; direi che è più ch altro il ciclo di come quel disco entri in risonanza con la mia vita. Wilderness Of Mirrors, girò tutt’intorno al crescere di una tensione che ha portato alla realizzazione dell’album stesso. E’ stata la manifestazione di una grande quantità di frustrazione e intenso disaccordo che nutrivo nei confronti di un vasto raggio di incursioni politiche su quel contratto sociale in cui credevo fermamente. La musica è stata una valvola per rilasciare quella pressione, sperando che possa ravvivare altri cuori e condurre all’azione altre menti. Non sono sicuro che abbia cambiato il mio modo di pensare, ma ha chiarito le ragioni per cui questo lavoro possa contenere del significato e in che modo possa essere comunicato al pubblico.

Qual è la tua definizione di artista sperimentale e quale dovrebbe essere il suo primo dovere?

Una domanda molto interessante. Io non mi reputo un artista sperimentale. Ritengo che, in un modo o nell’altro, questo termine sia finito per essere abusato e quindi lo vediamo impiegato come fosse un genere a sè stante, che viene preferito ad aggettivi più funzionali per definire un lavoro che è usuale o effettivamente sperimentale.
Penso sia incredibilmente difficile orientarsi in una cornice interamente sperimentale. E’ uno spazio complesso, richiede massima irrequietezza, che non è mai un processo facile. Ecco dovessi dire indicare il primo punto sulla lista che un artista sperimentale dovrebbe soddisfare direi proprio l’irrequietezza.

Quando la ricerca può essere definita arte? 

Penso che tutti i bravi artisti siano ricercatori in un certo senso. Talvolta i risultati di una ricerca appaiono come dal nulla, ma generalmente essi vengono informati da un profondo spazio ontologico. Quest’ontologia è qualcosa che è formata da anni di pensiero ed è ciò che qualcuno chiamerebbe ricerca. Credo che ora, date le attuali preoccupazioni di una generazione di curatori arrivata attraverso l’onda di Borriaud e simili, ci sia una connessione reale tra ricerca e fare arte. E’ un ottimo momento per chi gode dei piaceri della mente.

Credi che agli ascoltatori di oggi piaccia essere sfidati o preferiscono morire nell’abitudine di un sound rassicurante? 

Se pensassi che tutti gli ascoltatori fossero intrappolati nel regno del già conosciuto allora smetterei di lavorare. Percepisco con forza che dentro ciascuno c’è un profonda curiosità circa il creare sensazioni. L’udito è uno dei cinque sensi, abbiamo bisogno perciò soltanto dei mezzi attraverso i quali poter immergere le nostre orecchie in nuove vibrazioni!

Puoi suggerirci un disco che dobbiamo ascoltare assolutamente? 

Le registrazioni di Master Musicians Of Jajouka di Brian Jones. Sono ancora straordinariamente trascendenti!

Droni e field recording sono tecniche ben conosciute e sviluppate, come ci lavori sopra per trovare nuovi approcci?

Penso che la grande sfida con ogni forma o struttura sia utilizzarla per sviluppare i tuoi particolari interessi o argomenti. Quando le persone parlano di droni, devo dire che non credo che la maggior parte del mio lavoro vi abbia a che fare. Quando penso al drone, i miei riferimenti sono La Monte Young o Phill Niblock. Questi sono i compositori che definiscono profondamente la musica drone e che attraverso tale forma hanno sviluppato linguaggi personali. Di sicuro sono legato alle intensità armoniche sostenute, ma non sarebbe corretto per gli artisti menzionati che venissi collocato nella medesima nozione di drone.
Con particolare riguardo al field recording, sono stato profondamente coinvolto nello sviluppo di una certa posizione teorica attraverso cui comprendere il significato di questa pratica. A questo fine ho sviluppato un framework chiamato Relational Listening. Potete leggerne qui.

Affianco alla ricerca sonora la tua musica si caratterizza per la componente emotiva. Come riesci ad evocare sentimenti attraverso il “rumore”?

In una dimensione live mi interesso molto alla connessione generata da suono, vibrazione e tocco. C’è un punto in cui il sound, specie le vibrazioni date dalle basse frequenze, trascende il puro aspetto sonico per giungere nel regno fisico. Si realizza un momento di sinestesia e sono davvero interessato a comprendere come questo si percepisca e suoni allo stesso tempo. Penso che il corpo sia un orecchio che apprezzi una relazione molto particolare con il suono. Una volta attivato e dopo che la natura armonica della musica vi si è insinuata, l’esperienza della musica dal vivo diventa qualcosa di davvero speciale. Penso che sia qui la questione dei sentimenti e del rumore che si incontrano e si risuddividono in un ampio ventaglio di dimensioni di esperienze differenti, la cui profondità dipende dallabuona volontà dell’individuo di abbandonarsi ad esse.

Attualmente stiamo assistendo a un incrdibile ritorno ai sintetizzatori modulari. Ritieni che sia un’esigenza reale o una moda momentanea?

Penso che i produttori di synth artigianali che stiamo vedendo oggi siano straordinari. Questo è uno dei grandi vantaggi dell’era moderna con le sue molteplici possibilità. Ho usato sistemi modulari dal 2006 quando Keith Whitman venne a trovarmi e aprì veramente le mie orecchie al loro potenziale. Detto questo, il lavoro che ho fatto negli ultimi anni non si rifà esattamente a quel materiale sonoro. C’è una lista di artisti che dominano realmente i synth modulari, mi riferisco a nomi che mi piacciono come Keith Whitman, Alessandro Cortini o John Chantler, che hanno sviluppato tecniche di lavoro molto personali!

A proposito di Alessandro Cortini, vi abbiamo visto insieme allo scorso Berlin Atonal. Cosa ci puoi raccontare di questo progetto? Lo rivedremo ancora in futuro?

Lavorare con Alessandro è stato un vero piacere. Penso che entrambi siamo intenzionati a lavorare ancora sui pezzi preparati per lo show all’Atonal. Credo che ci dedicheremo molto a questo progetto dal 2016 in poi.

Federico Spadavecchia

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