Sono passati cinque anni dall’ultimo disco della serie Xerrox, progetto apparso per la prima volta nel 2007. Sembra quindi che l’obiettivo dei cinque volumi sia ancora valido. Stando alle parole di Alva Noto i primi due album riguardavano il passaggio dal vecchio al nuovo mondo, ora invece l’attenzione si sposta all’immaginario fantascientifico, quello di grandi classici cinemetografici come Solaris, e degli adattamenti dei romanzi di Jules Verne girati da Tarkovsky, che Carsten guardava da bambino.
Parlando invece del concept sonoro e produttivo Xerrox insiste sull’idea della manipolazione dei dati attraverso la loro riproduzione all’infinito. La copia della copia quindi sarà diversa per alcuni tratti dal disegno originale, e andando avanti si passerà da un dettaglio di alterazione trascurabile ad avere in mano un elemento completamente inedito.
Il primo impatto con l’ascolto è la sensazione di solennità che pervade l’intera opera. Siamo davanti alla soundtrack di un colossal immaginario. Un film che non esiste nella realtà ma che proietta immagini così cariche di significato da aver bisogno di essere enfatizzate mediante una musica delicatamente malinconica che non prenda mai il sopravvento. A differenza dei capitoli precedenti l’emotività è assoluta protagonista, ogni ragionamento circa la tecnica va in secondo piano.
Probabilmente il punto debole dell’album sta proprio nel non offrire particolari novità di contenuto, problema per essere onesti di cui soffre tutta la scena ambient odierna, che possano catturare con decisione l’ascoltatore. D’altra parte l’autore ha preferito puntare su un’atmosfera intima, ottenuta avvicinando il minimalismo matematico di casa Raster Noton alla classica contemporanea (un po’ come nelle collaborazioni con Sakamoto). Ne esce un sound glaciale, intenso, ma non pienamente sincero.
Come tutti i grandi film dai sequel senza fine Xerrox 3 risente di un manierismo fin troppo evidente: si possono cambiare gli attori di contorno e la scenografia, ma la trama di base è sempre la stessa. Al pubblico non resta allora che ammirare la costanza qualitativa dell’artista oppure rivolgere lo sguardo altrove in cerca di nuovi stimoli.
Federico Spadavecchia