“Tranne me e te tutto il mondo è pieno di gente strana. E poi anche te sei un po’ strano.”
(Learco Pignagnoli, in “Opere Complete di Learco Pignagnoli” di Daniele Benati)
Il concerto di Mike Cooper viene introdotto da una piacevole chiacchierata con quest’uomo dalle innumerevoli esperienze. In cappello di paglia e t-shirt tropicale d’ordinanza, racconta episodi della sua vita: nato musicalmente come bluesman, conosce Howlin’ Wolf e John Lee Hooker, si appassiona alla musica hawaiiana vedendo per caso un filmato della British Pathè (sorta di Istituto Luce d’oltremanica) dedicato a un’orchestra inglese degli anni Trenta (Felix Mendelssohn and his Hawaiian Serenaders che si esibiva nel ristorante del museo delle cere di Madame Tussaud), si dedica all’improvvisazione, al free jazz, attraversa con curiosità la stagione del post punk e della no wave.
È uno di quegli uomini fortunati che sa trasformare i casi e le difficoltà di tutti i giorni in opportunità: perde il lavoro, la casa discografica non gli rinnova il contratto? Benissimo, lui si sposta in Spagna e si occupa di verniciatura delle piscine.
Conosce una donna romana di cui si innamora? Si trasferisce a Roma dove vive da ben 27 anni, viaggia con lei in lungo e in largo per le isole del Pacifico. Sembra una vita progettata in laboratorio per essere avventurosa: il padre percussionista per un’orchestra da ballo, parte dell’infanzia in Australia, gioventù in Inghilterra negli anni Sessanta (il posto migliore, all’età migliore, dove aver vissuto nel secolo scorso)…Simpaticissimo, si starebbe ad ascoltarlo per ore. E si ritrova settantenne ad esibirsi sotto le piante del giardino dell’acquario in una serata già tiepida ma non ancora funestata dalle zanzare. Al posto giusto nel momento giusto.
Munito di slide guitar, loopstation ed effetti, da lui ci si aspetterebbero ambientazioni sonore da ideali isole dei mari del Sud dove la preoccupazione maggiore è levarsi la sabbia dalle scarpe, ma il suo tropicalismo oceanico non è fatto solo di collane di fiori. Appena tocca l’elettronica, la vena improvvisativa materializza immagini di capanne erette troppo vicino al bagnasciuga che vengono spazzate via dalle mareggiate, ronzii insistiti percepiti nell’incoscienza mentre i soccorritori vi praticano la respirazione bocca a bocca, il dramma sottinteso da un surf che torna a riva da solo. La voce di Mike Cooper, stentorea e ovviamente debitrice delle sue radici blues, declama litanie fatte di liriche stralunate, figlie di un flusso di coscienza che, non si capisce come, si adatta perfettamente ai suoi costrutti musicali. Ricorda in questo lo stile di un contemporaneo cantore dell’assurdo come Richard Dawson, adattato a un contesto completamente diverso: non il disagio industriale di Newcastle, ma i drammi occultati dalle palme da cartolina di Tahiti. Un’oretta, e i pesci dell’acquario possono riprendere il loro tran-tran quotidiano fatto di meticolose misurazioni delle dimensioni della vasca. Tranne le murene e il polpo, sempre rintanati nei loro pertugi.
Un doveroso ringraziamento agli organizzatori di questa anteprima del Terraforma Festival, che lo preannuncia come appuntamento nuovamente irrinunciabile per gli appassionati di musica fuori dagli schemi.
Andrea Cazzani