Dopo aver visitato l’esibizione al Brewer Street Car Park di Soho a Londra, dove The Vinyl Factory spesso tiene le sue mostre, si capisce appieno perché questo lavoro di Trevor Jackson si chiami “Format“.
È una celebrazione della fisicità dei modi di fruire della musica, in un’era in cui ci sono tutte le condizioni perché quel lato andasse perduto, ed invece resiste e trova ancora forza, contro (quasi) ogni logica.
Negli ultimi anni, il dibattito sui formati della musica è stato continuo e spesso pedante, avvitandosi su questioni a volte secondarie (vinile o CD? Quale supporto per gli MP3?); questioni che però hanno scatenato emozioni e reazioni in alcuni casi semplicemente passatiste, in altri invece troppo superficiali.
Con il suo lavoro, Jackson prende una posizione netta ed al tempo stesso omni-comprensiva. Glorifica la fisicità dei mezzi di fruizione musicale, per cui si vede da che parte sta. Difende qualcosa che ha una sua storia, ed ancora una sua importanza ed un suo ruolo. Al tempo stesso però si differenzia da chi ha, in queste dialettiche, preferito un formato in particolare ad un altro. Lui no. Lui li celebra e li onora tutti. E lo fa nel modo più sensato: rendendoli unici, complementari l’uno all’altro.
“Format” non è disponibile in dodici formati a nostro piacimento,o meglio non per ora. Chi vuole tutti i pezzi del mosaico musicale deve procurarsi tutti e dodici i supporti. Dall’ancora accessibile vinile (12″, 10″, e 7″), all’ormai proibitiva bobina “reel 2 reel”. Passando per la musicassetta (che negli ultimi anni ha vissuto un pur limitato revival da parte di alcune etichette), l’ancora vivo CD, l’attualissima USB card, ed altri retaggi di un passato ormai non più recente quali DAT, Minidisc, Mini CD, 8 Track, e VHS (!).
Non è chiaro il modo in cui Jackson abbia deciso di assegnare ciascuna traccia al rispettivo supporto. Quello che è certo è che all’unicità dei formati si associa l’unicità di 12 tracce splendide, che riflettono diverse sfaccettature dell’elettronica. Da suoni techno dritti, a brani più ambient, senza farsi mancare accenni acid nel brano che forse è il più bello (“Nowhere“) ed anche il più inaccessibile, essendo pubblicato su bobina.
Chi scrive li avrebbe voluti tutti, ma si è accontentato dei tre vinili e del CD. E non ha potuto prendere il Reel 2 Reel non perché fosse esaurito (prodotto in 10 copie), ma per l’impossibilità di spendere 850 sterline, che sarebbero diventate 2500 per la versione incorniciata.
Ma questo non toglie nulla alla potenza ed alla validità del messaggio lanciato da Trevor Jackson con questo progetto: il formato fisico, il poter toccare con mano e controllare l’oggetto che sprigiona le tue amate vibrazioni sonore, è ancora profondamente rilevante e legato alla qualità di ciò che si ascolta.
E – come dice Jackson – è anche “personalizzato dallo sforzo che metti nel comprarla, nel toccarla con mano, e nell’unico rituale che si accompagna al suonarlo ogni volta“.
L’apparente assurdità di molti dei formati che Jackson è andato a ripescare non tradisce mai elitismo, ma al massimo una sana provocatorietà che non può sorprendere chi lo conosce abbastanza. E se non accettate l’impossibilità di avere tutto, in linea con lo spirito di finitudine insito nei formati fisici della musica, potete sempre attendere la versione digitale che uscirà a breve, o l’edizione completa in vinile (le quali comunque non avranno “Nowhere“).
Un lavoro bello da sentire, vedere, suonare. E ovviamente toccare con mano. (5/5)
Luca Schiavoni