Le proviamo tutte, telepaticamente e non.
Disseminando lungo l’autostrada le tracce storiche del caso, invocazioni laiche pulsanti nella nebbia serale, una pioggia di Age of Love nello stellato remix di Paul Van Dyk, Love Stimulation, Touch Me di Rui da Silva e perfino Perceptions di Cass & Slide.
Come se un eco possa giungere a sfiorare i sensi di chi guiderà le danze, stanotte, nel club da cui sempre meno sono i chilometri che ci separano.Recapitando speranzosi commenti al resident della serata, suggerendogli titoli con cui provare a influenzare mister Bedrock e, chissà, spingerlo magari verso quella progressive di cui lui e il connazionale Sasha erano i massimi portabandiera, ma che negli ultimi anni sembrano aver quasi abbandonato (eccezion fatta per luoghi ed eventi circoscritti), in nome di un ecumenismo sonoro che lo porta ormai a suonare qualsiasi genere, etichetta, producer riscuota il suo interesse o un hype di qualche tipo.
E ci prova esplicitamente Gandalf, in apertura. Costruendo con intelligenza un andamento techno infiorettato di memorie prog vecchie e nuove, cantati come Rapture nel Deep Dish remix e Time dei Pachanga Boys, perfino Numb di Stephane K. Senza risultare scolastico, con un set da manuale del dj resident. Insomma, in tanti proviamo ad alimentare il virus progressive, con l’ingenuo, forse pedante entusiasmo di chi non si accontenta del richiamo fonetico di un cognome già storico, e parte armato di quelle che possono apparire tanto aspettative quanto pregiudizi, a seconda della prospettiva.
E, se mai li raccoglie, John Digweed raccoglie questi input a modo suo: non li raccoglie, sostanzialmente.
Com’è logico che sia. Con lo stile che lo contraddistingue. Dalle 2:30 spaccate.
Parco nell’uso dei colori, la sua selezione non si discosta da quelle sfoggiate negli ultimi tempi, come nell’ennesimo triplo cd mixato, fresco d’uscita, Live in Toronto. Sembra soggiacere a tanta deep plastica, sembrano piacergli davvero artigiani tedeschi del suono come Marco Resmann (il remix di Blindsided) o Oliver Huntemann (Vienna). E non sembra entusiasmare come negli auspici della vigilia.
Eppure, qualcosa succede sempre.
A ogni stacco il suono torna a spingere con potenza impercettibilmente maggiore.
JD s’inerpica sugli spigoli della musica, senza toccarli. Aggirandoli in una progressione euclidea, che quasi asseconda i fasci di laser che si aprono in sezioni geometriche e i visuals che disegnano triangoli sempre più piccoli, uno dentro l’altro, lungo le pareti di un club davvero all’altezza, il Loud in via Sacchi (ex Le Gare, ci dicono, ai tempi consacrato alle venute di Gigi D’Ag, ora completamente rinnovato).
E quando dopo un’ora e mezza, a tre quarti del suo eccitante teorema sonoro si lascia finalmente andare ai fuochi d’artificio, lasciando deflagrare l’acid di uno scintillante King Unique remix di Sharp Objects, sembra aver conquistato la pista più con la strategia di chi é costretto a muoversi su un terreno accidentato, che con un attacco frontale in campo aperto. Più con una dimostrazione esemplare, che con l’estemporaneità di una scoperta geniale.
La scena house dopo tutto é sempre meno terra di conquista. Si tratta piuttosto di mappare un buio sempre più esteso, con la luce di una torcia per farsi strada. Saltare da un ponteggio all’altro per guadagnare il tetto di un palazzo in restauro.
Avvicinarsi con fatica, sganciando un modulo dopo l’altro, al suolo lunare, prima di piantare una storica bandierina.
Il futuro é arrivato, facciamo cose che prima ci sognavamo ma sono ben lungi dallo sfrecciare tra le supernove e gli anelli di Saturno a 160 bpm.
Tutto questo sembra raccontarci anche John Digweed, mentre sulle teste di un pubblico sempre più festoso rimbalzano grossi cubi neri, casse di gommapiuma simili a quella che un pioniere dell’elettronica di recente ha spinto su una fan che lo riprendeva da vicino (a proposito di un futuro che non c’era, quando nei club risuonava la progressive più futuribile).
Le proviamo tutte per non farci sorprendere da un’eventuale delusione, in fondo. Per questo poi torniamo a sentire cos’hanno da raccontare dj come John Digweed. In treno, automobile, aereo.
Ovunque suonino, non appena possibile.
Emiliano Russo