Il Cuoco, il Ladro, Bologna e l’Amante

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Il confine tra la discoteca e il rave si trova in una zona dimenticata degli anni ’90, il club resiste in varie forme, le feste private si svolgono sempre da qualche parte.
Dall’altro canto vi sono le grandi mongolfiere dei festival, generalmente fabbriche di fenomeni usa e getta e di fatturati da capogiro, con i loro eventi satellite fatti più di comunicazione che di sostanza.
Cosa succede quando una realtà di derivazione sociale quale quella bolognese e una discoteca si ritrovano a perseguire scopi simili, ovvero la gestione di technoarene con proposte di nomi di grande respiro come attrazione? (date un’occhiata qui n.d.r.)
Succede che forse si ritorna a parlare di musica, di differenze, di qualità, di invidie e di politica, dunque di soldi.
E’ così che nell’epoca del protagonismo dei promoter, venditori al dettaglio travestiti da demiurghi, e dello strapotere delle agenzie, che pressano gli artisti per uscire con nuovo materiale pena l’esclusione dai pacchetti surgelati da piazzare in giro, la proposta musicale si fa sempre più ambigua.
E’ un live o un play? Suona con Traktor? O con i dischi? Ha del vinile o no? Ha delle macchine? Ma è lui, o è suo cugino? “Genere ragazzi, genere…”(cit.)
L’underground tutto sommato continua ad esistere e a produrre, Berlino o non Berlino, e chi se ne accorge è in grado di portare avanti e/o frequentare realtà particolari, certamente di nicchia, volutamente di nicchia per vari motivi, nutrite spesso da linfa locale, mentre chi legge il flyer trovato al bar si accalcherà in una coda chilometrica sborsando fior di quattrini per vedere due luci là in fondo e sentire del frastuono dozzinale, scattare due foto da postare ed essere felice forse soprattutto dei commenti degli amici che non hanno potuto partecipare.
Il Dj deve stare in un angolo buio, è la sua musica che deve essere illuminata”, diceva il defunto Frankie Knuckles, mentre ora, e da tempo, si è trascinata avanti una dimensione cattedratica della figura del DJ, quasi messianica, come fosse un bel prodotto da mostrare.
Il metodo del resto è già stato ben rodato con il rock: cavallo vincente non si cambia.
La gente vuole il nome perchè è una garanzia di appartenenza, di qualità, e il nome ha naturalmente un costo, è una merce che viene scambiata e garantisce virtualmente una certa affluenza, ma la verità è che spesso tu non hai un nome, dunque devi importarlo.
Il nome è il valore che viene scambiato, e se non hai creato valore, non puoi scambiare niente e devi pagare e basta, e naturalmente gli avventori se ne accorgeranno visto che questo costo graverà principalmente sui prezzi al dettaglio, e questo ha a che fare con la qualità del servizio, senza neppure arrivare a parlare delle trombe degli speaker.
Se non si fanno circolare le cose, ma ci si trova solo a dover importare dei prodotti lavorati, ci si trova in una condizione che si può definire pertinentemente di sudditanza culturale.
La musica è una pratica identitaria e legata al contesto.
Tutti conoscono ormai il contesto di Detroit, ma ci sono molte città che hanno il proprio contesto, il proprio sound, senza andare a parare sulle solite ovvie Londra o Berlino, abbiamo ad esempio Dusseldorf, Colonia, Chicago, San Francisco, New Orleans, Amsterdam, Parigi, Roma, Bristol, Miami, Napoli, Sheffield, Manchester, Glasgow, Rotterdam, Gent, Frankfurt, Brooklyn, Kingston, e così via…rings the bell?
Come Freud ha monetizzato il mito di Edipo trasformandolo in psicanalisi esclusivamente per allevviare le sofferenze di borghesi annoiati e per far chiavare Woody Allen, così le città industriali, e le città ad ogni modo sotto l’influenza economica diretta di queste, hanno sviluppato un’estetica musicale che è stata monetizzata nell’enterteinment della classe media e della working class. Si tratta di un processo storico culturale, sociale ed economico.
L’interrogativo che spicca su tutti è riferito sicuramente al perchè, dopo 20 anni di elettronica, non si possa parlare anche a livello internazionale di un “sound di Bologna” sebbene le professionalità non manchino ma anzi, hanno preso il primo treno utile.
Di responsabilità non vi è traccia se non nell’evidenza. Per il resto si tratta di mere quisquilie circensi di poco conto.

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