La musica elettronica ha varcato ormai da tempo la soglia del teatro.
L’ultima vera subcultura giovanile è stata sdoganata: Dj’s, produttori e club ottengono finalmente un pieno riconoscimento culturale anche da coloro che fino a pochi attimi prima li bollavano senza pensarci troppo vuoti e stupidi.
Un conto però è portare uno show da un paio d’ore, e un altro organizzare un intero festival con alternanza di momenti d’ascolto ad altri decisamente dance oriented.
Il Bozar è il palcoscenico più in vista di Bruxelles: uno spazio gestito con intelligenza, aperto a ogni forma artistica purchè di qualità, in grado di attrarre sponsor di peso come Belgacom e soprattutto BMW, che gli consentono di mantenere prezzi molto popolari (abbonamento a 31 Euro) e incassare un rapido sold out. C’è ancora qualcuno convinto che la Cultura non paghi?
Chiamato semplicemente Bozar Electronic Arts Festival, l’evento si svolge l’ultimo weekend di settembre e, insieme all’Incubate di Tillburg, da il calcio d’inizio alla nuova stagione del clubbing.
Per due giorni le sale di questo edificio prestigioso si aprono a sperimentazioni ed euforia dalle otto di sera alle tre di notte.
Muovendosi da un’area all’altra si resta colpiti per come la logistica risulti pratica ed estremamente funzionale, altro che cattedrali nel deserto come il Carlo Felice di Genova nato con l’handicap di non poter andare in pari nemmeno se pieno, o i difetti strutturali di quel gioiello del Carigano a Torino che oltre un certo livello di volume vede cadere calcinacci dal soffitto.
Gli impianti installati sono tutti Funktion One, da ogni angolo l’esperienza acustica è perfetta.
Il venerdì si apre con i Kiasmos, Olafur Arnalds (già conosciuto per aver composto la colonna sonora di The Hunger Games) e Janus Rasmussen.
Il live è vivace, prendono molti applausi ma il sound è ancora troppo derivativo pagando dazio a gente come James Holden, Four Tet, Ulrich Schnauss e Jon Hopkins.
Chi invece sta contribuendo all’evoluzione di queste atmosfere è il loro compagno di label (la tedesca Erased Tapes) Nils Frahm, indicato a ragione come next big thing.
Non ci giriamo intorno, è lui l’uomo del momento: grandissima tecnica (a sua disposizione ha un pianoforte a coda, un hammond, un synth Roland, effetti e un piano preparato), poetica delicata (anche se nelle fasi solo piano rischia di essere un po’ stucchevole), e un ottimo senso dell’umorismo con cui intrattiene il pubblico tra un brano e l’altro.
Abbandoniamo le comode poltroncine per buttarci in un lungo corridoio bianco, un mix tra galleria d’arte e club, dove ci godiamo un Tim Hecker strepitoso, avvolgente e distruttivo, e Ben Frost alle prese con Aurora, mentale e liquido, imperdibile.
Ultimi step della festa sono il set acid EBM di Powell (che magari potrebbe fare un piccolo sforzo e imparare definitivamente il beat matching), e il concerto dei Mondkopf, interessante nei suoni ma abbastanza scontato quando cade nel dark ambient.
Sabato a fare gli onori di casa troviamo Robert Henke.
Abbiamo apprezzato Lumiére già quattro volte in altrettanti Paesi (Italia inclusa, proprio a Genova in anteprima nazionale), e anche questa volta è stato davvero godibile. L’unica differenza sostanziale rispetto al passato è la musica d’accompagnamento, resa più melodica.
Il muro di noise modulare alzato da Ankersmith introduce la performance di Phil Niblock: un drone di violoncello che sonorizza una coppia di proiezioni sulla vita di minatori e pescatori brasiliani negli anni ’70.
MVP della giornata Max Cooper: un’ora e venti di show nel main stage, accordi trascinanti e colorati su eccitanti ritmi IDM e house, visuals da trip allucinogeno.
I ragazzi ballano ovunque e tocca alla psichedelia dei Fuck Buttons far ritrovare loro la pace dei sensi.
Nell’intima oscurità dello Studio i Lumisokea citano inizialmente la nebbia di Carpenter, quindi vengono fuori con textures stratificate, minimalismi alienanti e micro sinfonie cerebrali.
Basta star seduti, adesso è festa per tutti con il collettivo Young Echo in consolle, che fa ballare di gusto selezionando dal grime più tradizionale ai colpi più duri dell’Uk rave.
Non ci stancheremo mai di ripeterlo: investire sulla qualità, andando più in là dei soliti nomi, significa alimentare la cultura e al medesimo istante educare l’audience portandola a desiderare qualcosa di sempre più particolare e stimolante, rendendola più variegata, legandola a doppio filo a sè garantendosi in tal modo continuità per il domani. Complimenti dunque al Bozar e alla sua realtà virtuosa.
Federico Spadavecchia