Aaron Funk è uno che non le manda certo a dire. Eppure gli ci sono voluti più o meno quattro anni per tornare a farsi vivo su disco come Venetian Snares (nel mezzo un album come Last Step e un paio di EP senza nome auto pubblicati solo in digitale), come avesse voluto prendersi una pausa di riflessione da un mood che stava trasformandosi nella perfetta caricatura di sè stesso.
Quando si parla del veneziano infatti gli aggettivi più usati sono: estremo, violento, insano, perfetto per una serata romantica all’insegna della necrofilia.
Questa volta però il gigante canadese ci sorprende presentando un’opera complessa, che va oltre il semplice terrorismo sonoro.
My Love is a Bulldozer mette in luce il lirismo di Venetian Snares, una poetica sinistra fatta di voci soulful (quasi al naturale, appena trasfigurate) cui vengono affidati messaggi apocalittici (life was empty, this world is over, there’s nothing left), e racconti di amori malati (I was born to kiss your smiling face, oppure my world is broken in two tonight, too far across this world from you ed ancora my heart beats so fast…my love is a bulldozer…only you can make my dick feel like this oh baby), su una psicotica architettura jazz sempre sull’orlo del baratro.
Ogni pezzo prende le mosse da strutture classiche, appunto il jazz, la musica contemporanea, e si distende come fosse una colonna sonora drammatica e solenne (c’è addirittura una ballata!!!) fino a quando non scatta il corto circuito.
Un neurone kamikaze innesca la rivolta armata nella testa dell’autore, provocando il collasso del beat, che passa così dal ruolo di accompagnatore a quello di buco nero che tuttavia, pur trascinando tutto dentro di sè, non compromette l’equilibrio dell’universo.
Il grande pregio di My Love is a Bulldozer è proprio l’armonia tra le sue diverse anime, che ne preserva la leggerezza e contemporaneamente l’intensità, impedendo alle parti alte di renderlo un esercizio di onanismo intellettuale e, al contrario, che la follia distruttiva della breakcore affossi ogni cosa sotto quintali di pesanti macerie.
Dietro a quello sguardo gelido c’è un artista raffinato, tanto pericoloso quanto ironico, capace di cambiare le carte in tavola in qualsiasi momento, tenendo gli ascoltatori attaccati alle casse dall’inizio alla fine.
Federico Spadavecchia