Felice aurora, cari amici, mi presento. Mi chiamo Gregorio, sono alto 26 metri e mezzo, sono un platano che vive nel parco di Villa Arconati e sono nato quasi 550 stagioni fa, se non ho sbagliato a contare gli interstizi fra gli anelli del mio tronco.
La vita qui è una noia, l’ultima volta che mi sono risvegliato dalla solita quiescenza c’era la dolce contessina che si lasciava violentare da due stallieri, ma era tanto tanto tempo fa, gli esseri umani si coprivano con degli stracci molto diversi da quelli che usate adesso.
Nell’ultimo giro di luna però sono successe delle cose eccitanti.
Prima arriva una squadra di operai che monta un palco e un bancone fatti di legno levigato, mi sarebbe piaciuto tagliassero anche quei miei due rami vecchi che mi danno fastidio, ma purtroppo non sono in grado di comunicare con voi.
Poi piazzano degli scatoloni neri da cui escono delle belle vibrazioni che mi massaggiano le radici, ne avevo proprio bisogno.
E poi arrivano tanti esseri umani che dicono parole che non capisco, credo siano venuti apposta da paesi lontani, vuoi vedere che proprio sotto le mie fronde sta finalmente per succedere qualcosa di significativo.
Dite che si chiama “musica” e la sentite con le orecchie, io percepisco le vibrazioni della terra.
Adesso vi racconto quello che è successo negli ultimi tre giri di sole, che credo ricorderò per tutta la vita.
Io di tutto questo non so nulla ma capisco un po’ della vostra lingua, le mie radici si estendono fino a metà della radura e passano proprio sotto il palco, cercherò di riportare quello che ho percepito delle vostre impressioni.
Gli umani sono rilassati ma la loro tensione è palpabile (sì, sento le emissioni chimiche che chiamate emozioni), sul palco sale “Tommaso Cappellato” con una “batteria” e degli “effetti elettronici” e inizia a “suonare” una cosa che si chiama “jazz“, ma non “normale” dite voi, c’è “un suono d’avanguardia molto piacevole“. Ok, le virgolette sono per me che non so di cosa sto parlando, ho l’impressione che per voi queste parole siano familiari, quindi continuo senza, e anche senza giudicare, qui non succede mai niente e mi sta bene tutto. E se non descrivo tutto quello che effettivamente è successo, abbiate pazienza, fatico a mantenere l’attenzione, sono un albero, non abbiate pretese.
Ecco un duo, i Voices From the Lake, live con le macchine, italiani che stanno spaccando tutto ovunque, fanno un set molto lungo per gli standard a cui siete abituati ed è un crescendo ritmico davvero ben realizzato, la techno è sempre più lontana dalla cassa dritta pura e semplice, nelle propaggini più oscure di questo suono loro sono dei maestri.
Viene da chiedersi chi possa, dopo il loro set perfetto, continuare a farvi muovere come un gregge sincronizzato, attività che pare piacervi molto.
Morphosis, secondo il mio seme (che porta con sè la memoria collettiva dei miei antenati) non è proprio un essere umano, assomiglia più a un “orso del Libano” e si accomoda dietro i Technics.
Cose pazze, completamente diverse dalle precedenti. Concitazione da tumulto di piazza mediorientale, free jazz cosmico alla Sun Ra (che mi fa crescere di dieci centimetri, come attratto dalle forze gravitazionali di altri pianeti), IDM tellurica e sconosciuta.
Il movimento di gregge è più caotico e selvaggio ora, un umano etichettato come “idiota” sale sul palco per chiedere a Morphosis “le canzoni che mettono all’irish pub di Paderno Dugnano” ma viene bruscamente zittito con una zampata ursina.
Vi sento definire questa esibizione “disumana“: è strano percepire così poca autostima di specie, voi che amate pavoneggiarvi anche senza meriti sotto le luci della ribalta…”umanissima” dovevate dire.
Succede una cosa inconsueta: una luce blu illumina me invece che voi, in tutta la maestosità dei miei 26 metri, lasciando la radura nella semioscurità.
Sono forse la star di questa cosa? Proprio io? Grazie cari. E lo so, vi piace impollinarvi al buio e questa è la vostra stagione. Infatti sento dei mugolii maschio-femmina provenire da una scatola chiamata “cesso chimico“. Eroi.
Voi esseri semoventi quando mettete radici in qualche posto avete bisogno di succhiare continuamente dei liquidi, proprio come me.
Su questa fondamentale tematica sento del disappunto: “che menata i tokens“, “puntano sull’ecosostenibilità e poi chiedono cinque euro per del piscio di cane industriale“, “andiamo nella corte di fianco alla villa, c’è un bar con delle ottime birre artigianali allo stesso prezzo“, e “tanto con queste pause geologiche fra un concerto e l’altro facciamo in tempo“. Mi sembrano argomentazioni che non possono lasciare indifferente la macchina organizzativa.
Secondo giro di sole, fatico un po’ a risvegliarmi, che tutte queste emozioni non le vivevo da centinaia di stagioni.
Norberto Lobo è un chitarrista portoghese dalle atmosfere desertiche e twangy, il riferimento più evidente è quello a Ry Cooder.
Vengo distratto dall’eccitazione sinaptica degli alberelli del bosco, dove un affascinante signore francese, Ghédalia Tazartès, sta raccontando storie della sua famiglia. Lui, parigino dalle origini talmente complesse da poter essere considerato apolide, ha creato con la sua voce e le sue registrazioni su nastro una spontanea cosmogonia esotica, fra il Mediterraneo e Tuva, fra il nord Europa e l’Africa subsahariana.
Canta, fra l’invocazione e il lamento, su basi di origine non rintracciabile. Il gregge umano, disseminato fra bancone e ombreggiature nella canicola ancora inattesa, è immoto e stupito.
Pasquale Mirra ha uno strumento che poche volte è al centro dell’attenzione, il vibrafono. Suoni per oziare placidamente e arrivare riposati alle fatiche del tramonto. Si sta preparando Burnt Friedman, si installa giù dal palco, synth e laptop posizionati nel bel mezzo della radura, sul palco solo i suoi due monitor. Perchè? “Il protagonista non sono io, il protagonista è il suono“. Ha ragione.
Capto due parole che si ripetono come una litania di bocca in bocca, “Basic Channel, Basic Channel, Basic Channel“.
Tardo pomeriggio, raggi solari che filtrano obliquamente, bassi morbidi che diluiscono le droghe in circolo, rotear di potenziometri che spreme le ultime gocce di principio attivo.
Pierre Bastien è un artigiano, un eccentrico inventore di due secoli fa o un orologiaio forse. Ha un apparecchio magico costellato di ingranaggi, emette ticchettii, soffi, ronzii. Miscelati splendidamente con campionamenti da dvd che raffigurano batteristi swing e big mamas del blues primordiale, una tromba ammaccata e con la sordina, archetti e pifferi montati sul marchingegno. Piace così tanto che il bis è inevitabile: dal cielo cala un piccolo drone dai lampeggianti rossi e blu (trovata della produzione? Guardone in cerca di coppiette? Psicopolizia?), e lo straniamento distopico è completo: davanti, il suono meccanico da cartolina ingiallita della rivoluzione industriale; sopra, il mulinare di pale di un inquietante futuro controllato. I battimani e le vostre secrezioni ormonali mi lasciano intendere che Pierre Bastien vi è piaciuto più di tutti. Anch’io lascio che le mie foglie stormiscano un po’.
Secrezioni che con i due concerti successivi scemano subito, Thomas Fehlmann è inchiodato alla tech house di dieci anni fa, e Millie & Andrea assordano con un tentativo provinciale di UK Rave, 1989 circa.
Vi sento dire che Andy Stott (aka Andrea) è sempre stato sopravvalutato nelle esibizioni live, meglio se avessero chiamato solo Miles Whitaker (aka Millie). Ah, ma è troppo pestone, è troppo minimale, perchè non chiamare direttamente gli Altern8 che sono storici e probabilmente non costano di più, eh, ma sono cose fuori contesto (non so, se le portavano potevano pure piacermi). Poi mi addormento, che dopo una cert’ora devo russare anidride carbonica, mi perdoni Heatsick se senza stimoli i miei percettori radicali perdono sensibilità. Ma non fatemi tornare subito alla quiescenza, vi prego.
Una nuova aurora: riprendo conoscenza dell’ambiente circostante mentre suona il chitarrista James Blackshaw, quasi ignorato dal gregge umano oziante che oggi produce un odore strano, come di cipolla marinata. Non comprendo questo comportamento, dato che i vostri costumi riproduttivi non prevedono l’intervento degli insetti.
Volcov, veterano italiano edito dalla Rephlex, se la cava (bene) col mestiere e con l’imprinting braindance che smuove i più intraprendenti, il duo Deadbeat/Tikiman convince con un intenso aroma di abete rosso del Canada e palma da cocco caraibica: i bassi di Deadbeat creano miraggi, Tikiman alla voce non esagera mai, puntando più su effetti distorsivi che sul desiderio di arringare il pubblico.
Suggestioni botaniche tropicali che continuano con Sister Patti, bass music lussureggiante che sfocia in un esercizio di sempreverdi roots/reggae.
Non fatemi tornare alla quiescenza, sradicatemi e portatemi con voi, mi basta uno spartitraffico, mi hanno detto che lì ci sono sempre cose interessanti da vedere, i tamponamenti e le imprecazioni, i vigili urbani e i cani che cagano, delle cose grosse che si chiamano autobus…l’ultima cosa che sento è “Terraforma torna fra quattro stagioni“…bene, per me è un attimo. Mi chiamo Gregorio, vi aspetto.
Andrea Cazzani