Strahil Velchev ha vissuto l’infanzia durante gli anni ’80, quando la sua Bulgaria apparteneva ancora al blocco sovietico ma allo stesso tempo si incominciavano a vedere i personal computer nelle case.
Sebbene il mondo sembrasse dover terminare da un momento all’altro a causa di un conflitto nucleare, c’era una generazione di giovani esaltati dalla musica e dal progresso.
Con la caduta della cortina di ferro si apre un mondo nuovo, e con la successiva diffusione di internet Detroit, Chicago e Londra non sono mai state così vicine.
Molte delle star di oggi provengono da Paesi ex URSS, come ad esempio Vakula o Paul Van Dyk, che in Germania è acclamato quasi fosse un eroe.
Techno post socialista.
Bisogna aspettare l’arrivo della nu house nel 2005 (a ridosso della minimal) perchè questo ragazzo di Sofia venga presentato al mondo dance come Kink.
Il suo è un percorso che parte dal jackin’ sound della Windy City e si evolve approfondendo l’aspetto inegneristico dietro ai grandi classici house e techno sia americani che europei, continuamente citati attraverso micro samples durante le performance live (specie quando in coppia col sodale Neville Watson) e omaggiati con release manifesto (vedi Aphex Kink EP, Sharivari 2010).
Con Under Destruction arriva finalmente il primo album edito da Macro, etichetta dell’artista bulgaro-tedesco Stefan Goldmann, di cui rispetta i canoni offrendo un suono cristallino e tridimensionale che prende le mosse dall’analogico e viene quindi seviziato digitalmente.
Il disco nasce dalla registrazione di svariate jam sessions, nelle quali l’autore ricrea atmosfere acid sci-fi talvolta contaminate da melodie malinconiche e voci esotiche, senza in ogni caso dimenticare la dimensione del club, sfoderando serrati quattro quarti su cui serpeggiano bleep ipnotici di scuola Warp.
In dodici tracce Kink racconta la sua storia sonica e dipinge una visione nitida del futuro che vuole costruire.
Federico Spadavecchia