Rapportarsi con il Mills degli ultimi anni non è semplice, vista la cospicua discografia che il nostro ha prodotto in pochissimo tempo.
Nei confronti dell’artista e dell’uomo, oltre ad un immutato rispetto, si prova quasi timore reverenziale nel fare un punto della situazione, visto quello che egli ha rappresentato, rappresenta e rappresenterà per l’intero movimento techno: dopo la triade di Belleville ci sono lui, Hood e Mike Banks, ovvero il nucleo primordiale dell’Underground Resistance, ad esportare il meglio della techno made in Detroit in tutto il globo, e a ruota tutti gli altri.
Inutile ripercorrere le sue gesta in questa sede: se non si sa nulla di X-101 ed H&M (no: i cardigan slim non centrano), degli pseudonimi Millsart e True Faith, dei lavori commisionategli dal Centre Pompidou di Parigi, meglio colmare immediatamente l’imperdonabile lacuna e poi ripassare da questi lidi.
Il nostro, però, ha peccato di originalità ultimamente e il suo ingombrante -per modo di dire- passato di sicuro non aiuta ad analizzare in modo lucido questo preciso momento della sua carriera: con la serie di nove Ep “Something in the sky” partita a inizio 2010, The Wizard sta attraversando un prolifico periodo in cui ha dato complessivamente alle stampe ben diciotto Ep e sette album. E fin qui nulla da recriminare, anzi, tanto di cappello per la dedizione alla causa.
Ma il problema che sta alla base è che fondamentalmente tutto questo materiale non ha aggiunto praticamente nulla alla già ricchissima discografia millsiana: da “Fantastic Voyage” a “The Power”, da “2087” a ”The Jungle Planet“, si ha sempre la sensazione di approcciarsi a qualcosa di già sentito.
Soliti loop, solito immaginario sci-fi o da cosmonauta durante la guerra fredda, solita staticità di fondo.
Tutti lavori di pregevole fattura a livello artiginale, sia mai, ma tutti lavori che sostanzialmente si equivalgono sul piano musicale e concettuale.
Strano più a dirsi, visto che l’artista in questione aveva fatto proprio il motto “Balance is the essential component”, cercando sempre di progredire e di reinventarsi.
Con “Chronicles of Possible Worlds“ gli equilibri costruiti negli ultimi quattro anni non vengono meno del tutto, ma si ha la netta sensazione che Jeff stia cercando ancora una volta un’altra strada per esprimere la propria arte, magari ripescando a ritroso spunti presenti in alcuni suoi lavori antecedenti al periodo contemporaneo.
L’album, collage sonoro di creazioni commissionate dalla fondazione Vasarey, dipana ogni dubbio su questa sua volontà: infatti, certe intuizioni presenti nello storico “Discovers The Rings Of Saturn” del ’92 e nel catalogo di una delle sue label -la Tomorrow- vengono qui riprese, sia a livello musicale ma soprattutto a livello di concept.
Non a caso quest’ultima fatica è dedicata agli studi fatti in merito alla scoperta di nuovi pianeti extrasolari da parte del laboratorio di astrofisica di Marsiglia e il documentario presente sul dvd è indispensabile per approfondire tutto ciò (e per gustarsi la prima resa live di “Chronicles of possible Worlds”).
L’impeto degli esordi si fonde con il minimalismo odierno, “Tales from extra solar” sembra un outtake da “Atlantis”, “Gemini pulsar” è sfaso astrale con il synth che balena arrogante -ma mai quanto il bassone finale, “Searching the stars” sembra strappata alla Omicron di Piero Umiliani, la conclusiva “Dreams beyond our horizon” è una discesa negli abissi più profondi.
Sarà la svolta ufficiale? Questi anni di stasi staranno giungendo al termine? Noi ci crediamo.
Francesco Augelli