Tim Hecker “Virgins” (Kranky)

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Superarsi è sempre un’impresa difficile, specie quando il tuo ultimo album è stato definito come il punto più alto della tua carriera.
Con Ravedeath 1972 (2011) pareva che Tim Hecker avesse tirato le somme del proprio percorso artistico, pubblicando un disco di rara bellezza e intensità, affermando una nuova classicità contemporanea che si esprime attraverso l’elettronica.
Virgins è stato concepito durante il 2012 tra Islanda, Canada e USA come un omaggio alle aspirazioni teologiche del primo minimalismo (Blow Up novembre 2013), riprendendo tecniche di produzione dal vivo e maggiormente incentrato sulle percussioni.
L’organo è quello della chiesa di Frìkirkjan a Reykjavik, location suggerita dall’amico Ben Frost per via dell’acustica particolare, dove in appena un giorno vengono anche registrati pianoforte e chitarra.
Dopo mesi di elaborazione in studio quello che ne esce è un’opera affascinante, che da una parte paga il giusto tributo a maestri del genere come Arvo Part (il piano in evidenza, la sacralità della musica) e dall’altra si proietta al futuro, quando spiritualità sarà l’unica morfina in grado di lenire il dolore dell’esistenza. Un dolore ripreso fin dalla copertina che cita le torture dei soldati americani nella guerra al terrorismo.
Hecker ricerca l’estasi in un soundscape riflessivo, carica d’enfasi ogni frattale evitando i crescendo. Virgins sta per purezza, è la luce che fa risplendere le vetrate di una cattedrale scaldandoci il cuore per riavvicinarci alla fede nell’arte.

Federico Spadavecchia

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