Guai a chiamarla Dubstep

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Dopo una indigestione mediatica e multidisciplinare senza precedenti, della quale sono responsabili riviste specializzate, musicisti e negozi di musica digitale, il dubstep, ossia uno dei più esplosivi stili musicali del nuovo millennio, lodato e valorizzato anche da “penne importanti” come quella di Simon Reynolds, si può ritenere definitivamente morto. In una mia recente intervista a Dj Pinch, pubblicata qualche mese fa su Dj Mag Italia, il grande producer dubstep anglosassone, fondatore della Tectonic Recordings, forse una delle più interessanti etichette discografiche (prima dubstep e poi bass music) degli ultimi 10 anni, alla mia domanda sulle ultime trasformazioni stilistiche del cosiddetto dubstep, mi confidava “candidamente” che, a suo avviso, il genere era già morto e sepolto da tempo, ossia da almeno 5 o 6 anni, e che il 2010 in particolare è stato un anno davvero terribile per l’innovativo stile musicale.
Vi invito a fare un giro sui principali siti specializzati in discografie musicali per verificare quali siano stati i titoli dubstep, o presunti tali, pubblicati nel 2010.
Vi divertirete! Ma, al di là di questo, l’incredibile spinta creativa dei pionieri del genere – vedi i vari Digital Mystikz, Skream o Benga – sembra essersi completamente  esaurita.
Ciò che stupisce più di ogni altra cosa, non è tanto il fisiologico chiudersi di un ciclo di vita di un genere musicale (a mio avviso, definitivamente suggellato dal famoso lancio del Corriere Della Sera sulla collaborazione fra Skrillex e gli Ex Doors) ma l’estrema velocità con cui ottime intuizioni siano prematuramente finite nel dimenticatoio.
Coloro che oggi, ossia nel 2013, continuano a produrre dubstep di qualità sono quelle etichette discografiche che, dopo la metà del 2005, venivano ingiustamente accusate di non stare al passo con i tempi e di non avere il coraggio di rinnovarsi proprio dai fan del modernismo senza compromessi.
Oggi come oggi, i massimi rappresentanti del dubstep di allora, o navigano in altri lidi, sicuramente più fruttuosi e trasversali, oppure si sono riciclati più o meno egregiamente in altre scene musicali, mentre di vere e proprie “nuove leve” in ambito squisitamente dubstep non sembrano davvero essercene.
Continua a circolare una discreta quantità di musica di qualità a 140 battiti per minuto e con un colpo di rullante sul terzo quarto, ma guai a definirla dubstep!
Morirebbe nel giro di qualche settimana.

Andypop

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