Krakow Unsound Festival ’13

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Avete presente il finale di Goodbye Lenin? Il protagonista fa credere alla madre malata che alla caduta del Muro di Berlino sia la gente dell’Ovest a scappare con estremo entusiasmo nella DDR, cercando rifugio nel grande sogno socialista.
Ma noi stiamo correndo davvero all’Est. Certo non fino l’Unione Sovietica ma fermandoci in Polonia, una nazione che dopo una vita di privazioni sta godendo di un periodo importante di sviluppo e ha voglia di recuperare il tempo perduto.
Cracovia è una città incantevole che si è rifatta il look attirando su di sè l’attenzione degli investitori occidentali, soprattutto inglesi, che qui trovano un incredibile potenziale (per tacere su birra e vodka).
L’Unsound, lo diciamo fin da subito, è diventato il miglior festival di musica elettronica del continente grazie ad una programmazione all’avanguardia lontana da qualsivoglia scorciatoia commerciale, locations suggestive ed un’organizzazione meticolosa, alla base della quale c’è una straordinaria passione per la Cultura.
Piccola curiosità: il team di produzione dell’evento è in maggioranza femminile!
La manifestazione dura una settimana intera alternando conferenze, showcase, concerti, mostre e parties sfrenati.
Tema dell’anno è Interference, l’interferenza, che come spiegato dai curatori è sia da intendersi a livello sonoro come un elemento ricorrente nella musica contemporanea sperimentale ma anche, e soprattutto, nel suo significato sociale e culturale, ponendo l’accento su cosa sia effettivamente l’underground oggi in un mondo iperconnesso.
Unsound quindi sfida il pubblico a concentrarsi sull’ascolto rieleborando l’idea d’intrattenimento.
A tal fine niente nomi popolari in cartellone, niente video su internet e divieto di foto nelle venues (ampiamente rispettato), non per difendere la privacy degli avventori ma per ricordare che qui il senso principale è l’udito.
La nostra avventura comincia il giovedì all’ora di cena nella chiesa di Santa Caterina con la voce etera dell’americana Julianna Barwick: cori angelici messi in loop, chitarra effettata ed il featuring di una classe elementare del conservatorio locale.
Non certo il suono del futuro (una specie di Sigur Ros spiritual and unplugged) ma davvero piacevole.
Ray Chatham e Charlemagne Palestine, due colonne portanti della musica moderna, mettono in scena un duetto sofisticato e divertente con il primo nel ruolo di spalla e complice impegnato con strumenti a fiato, chitarra ed elettronica mentre il secondo si divide tra organo, pianoforte ed un bel bicchiere di brandy.
Il finale li vede esibirsi con gli orsacchiotti costruiti dallo stesso Palestine. Immensi!!!

La parte by night del festival si tiene all’Hotel Forum, un mastodontico blocco di cemento sul fiume, pesante eredità del socialismo reale. Inutilizzato per anni è da qualche edizione il centro delle performance rivolte alla pista da ballo.
Highlights della serata sono Kevin Martin insieme ai King Midas Sound, in una veste più aggressiva del solito, ed il rapper dei Clipping (carenti invece sulle basi).
L’hype su Forest Swords e Mykki Blanco è del tutto ingiustificato: uno è inconsistente e l’altro un clown.
Venerdì è una giornata impegnativa ma ricca di soddisfazione.
Dopo aver ammirato nel pomeriggio l’installazione The Enclave di Richard Mosse, all’auditorium del Kijòw Centrum ci aspettano le migliori performance dell’intero festival.
Dream Cargoes è un progetto commissionato da Unsound a Roly Porter e Keith Fullerton Whitman, i quali, con il supporto dei visual artists Marcel Weber e Lucy Benson e del quartetto d’archi prestato dalla Sinfonietta Cracovia, uniscono tecnologia  digitale ed analogica per descrivere i paesaggi desertici narrati da J.G. Ballard, in cui l’ultimo uomo sulla terra incontra nuove forme di vita nate in questi ambienti ormai tossici. Da lasciare a bocca aperta.
A ricevere la standing ovation è però Robert Henke alias Monolake con la prima di Lumière, un dialogo serrato tra musica e raggi laser. Oltre l’emozionante.

Indossate le scarpette muoviamo i primi passi sulla moquette del Forum con Laurel Halo, che pare aver finalmente capito che se non canta è meglio per tutti.
Valido il set di Stellar Om Source a base di jackin’ beats, e alta scuola live acid house della band full analog The Mullholland Free Clinic composta da Move D, Juju & Jordash e Jonah Sharp.
Impossibile trattenere brividi ed entusiasmo su UR pres. Interstellar Fugitives.
Mike Banks se la ride sornione, sa benissimo che la techno è stata l’azione politica più efficace degli ultimi trent’anni e di conseguenza le loro non sono canzoni ma inni alla rivoluzione contro i dogmi di una società perversa.
La folla invoca il Giaguaro ma non riceve che un accenno di riff e le ennesime molotov.

Helena Hauff si conferma regina della consolle, mentre Regis in Necklace of Bites torna alle origini industriali richiamando gruppi seminali come i Test Dept.
Chiude Samuel Kerridge passato dall’essere una giovane promessa ad un’efficace realtà.
Il sabato la sveglia squilla subito dopo pranzo con una dura sessione di noise e techno graffiante all’auditorium Manggha.
Si inizia con l’ambient modulare del polacco Robert Piotrowicz, e si prosegue con il sempre verde Mark Fell (in sostituzione della malata Pharmakon) per concludere con un’eccezionale Pete Swanson che vira in pieno sulla techno e concentra in 30 minuti l’energia di una notte sul dancefloor.
Chi invece non ci ha convinti per nulla sono gli Altar of Plagues e gli Earth, metal ormai fuori tempo massimo. Peccato per la cornice perchè l’Engineering Museum è notevole.
La maratona notturna scatta al via dei Porter Ricks alias Thomas Köner e Andy Mellwig, pionieri del moderno klang elettronico tedesco al pari di Basic Channel. I problemi tecnici non scalfiscono l’intensità della loro arte.
Set a sorpresa per Demdike Stare & Andy Stott che accantonano il mood cinematico dark & dub in favore di dinamiche ravey. Il risultato è più che apprezzabile anche se i fan avrebbero preferito uno show classico.
A Pearson Sound preferiamo la selezione acida e pimpante di Anthony Naples, che ci proietta al gran finale con Blawan e Pariah nelle vesti del Dio della devastazione Karenn. Era da tanto che non si sentiva un live di questo livello: un bancale di macchine e cavi al servizio delle molteplici incarnazioni della techno d’assalto.
Tra abbracci e sorrisoni di un pubblico caloroso e attento finisce la nostra trasferta in terra polacca, con ritrovata fiducia che la musica non sia stata ridotta completamente a merce da supermercato.

Federico Spadavecchia

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