Di solito con Giovanni De Donà ci incontriamo al bar del Berghain durante la Club Transmediale di Berlino.
No, non è un Dj eppure con il suo talento ha girato mezzo mondo, coordinando a suo modo arte, tecnologia, tradizione artigiana ed una sana passione per tutto ciò che è futuristicamente fuori dagli schemi.
Attualmente è impegnato nella divulgazione di Diachronic, un plug in per Ableton live, in grado di scolpire il suono lavorando sulla variazione di velocità dei samples, che ha suscitato l’interesse di personaggi di primo piano come Phil Niblock
Ciao Giovanni benvenuto su Frequencies! Che ne dici di raccontarci com’è nato il progetto Diachronic? Da chi è composto il tuo team?
Ciao a tutti. Diachronic è nato come progetto artistico, spinto dall’attitudine a utilizzare la tecnologia in modi non ortodossi, dalla voglia di sentire qualcosa di nuovo, che sfuggisse alla solita griglia, a quella sorta di modularità arida che caratterizzava la minimal techno, verso la quale tendevano le produzioni degli anni 2000. E’ stato così che ho iniziato ad editare nastri magnetici e modificare vinili per ottenere variazioni controllate di velocità, scontrandomi immediatamente con dei problemi pratici dovuti alla materialità dei supporti.
I video di questi primi esperimenti sono stati trasmessi al MoMa P.S.1 (New York) nel corso di una rassegna domenicale nel 2012 (http://momaps1.org/calendar/view/338/). Avevo già suonato al P.S.1 con un progetto di Alterazioni Video, un concerto per luci e pannelli solari. Le mie incursioni nell’ambiente artistico non sono mai cessate.
Fin qui nulla di nuovo, già Boyd Rice e Alva Noto avevano utilizzato la stessa pratica, ma il mio intento era diverso da quello di entrambi, e soprattutto era diverso da quello di Christian Marcley, espresso nei suoi set a base di collages di vinili nell’89.
Mi interessava fare qualcosa di deterministico, di non aleatorio: mettere a punto un metodo, studiarne l’efficacia, allo scopo di produrre uno strumento per poter creare variazioni controllate su alcuni suoni, montarli a piacimento con altri, giocando sull’alternanza tra fissismo e variazione, con la possibilità aggiuntiva di controllare in tempo reale l’intensità di questa variazione.
Pensai così di poter rendere in digitale ciò che non era possibile fare in analogico.
Ne parlai con dei musicisti studenti di informatica dell’università di Pisa: ne vennero fuori una patch audio, e successivamente una patch video, scritte in PureData.
Nel 2007 con la patch video produssi una sorta di edit di Olympia di Leni Riefensthal, musicato da loro, nell’ottica di creare una sessione future-retro di vecchi video modificati nel loro andamento, nella velocità di riproduzione, in vista dell’imminente centenario del Futurismo Italiano. Intravedevo, infatti, un’analogia tra il dinamismo plastico di Umberto Boccioni e le possibilità aperte da Diachronic: un chiaro riferimento alle avanguardie storiche, un consapevole e voluto potenziamento di quelle permesse dal solito campionatore in grado solo di ripetere, intonare, e, al limite, filtrare un loop.
Rimango convinto che a livello di popular music, senza strumenti nuovi, o comunque, senza utilizzi inediti di ciò che c’è a disposizione, non ci possa essere musica nuova, ma solo variazioni sul tema. L’anno seguente, il 2008, Jeff Mills fu invitato al Beaubourg con la sua reinterpretazione di Metropolis.
Era il momento del recupero e della digestione dell’immaginario degli anni 20-30.
Il nuovo millennio era iniziato da un pezzo e nessuno se n’era accorto: non stava succedendo nulla su tutta la scena, e l’eredità degli anni 90 pesava come un macigno sulla responsabilità degli artisti.
In quel mentre accadde un fatto importante che diede la spinta a tutto il progetto: Ableton avviò una collaborazione con Cycling 74, produttore di Max/Msp, e questo rese possibile il caricamento delle patch scritte in Max dentro a Live, in pratica l’innesto di Diachronic dentro un sistema multitraccia completo, con il proprio motore audio. Non sarebbe più servito reinventare la ruota, almeno per il momento.
Incontrai un ricercatore del conservatorio di Losanna che dopo aver sviluppato vari prototipi di nuova concezione mi indirizzò verso un ricercatore dell’IRCAM di Parigi.
Il nuovo algoritmo che ne uscì permetteva di lavorare anche in modo asimmetrico, pur sempre mantenendo la durata del loop originale. Decidemmo dunque di procedere alla sua brevettazione.
Il sito diachronic.it nel frattempo era diventato un manifesto statico, tutto si era arenato in ambito accademico, così decisi di chiuderlo: era il momento di aprire una piattaforma dinamica per fornire agli utenti un prodotto nuovo e funzionante, disegnato secondo una visione precisa.
Tuttora continuo a lavorare in outsourcing per il coding, avvalendomi di una rete di collaborazioni accademiche e di feedback di artisti e testimonials che provengono da vari paesi e da vari generi musicali, applicando per necessità il modello del liquid team.
Che cos’è esattamente Diachronic e a cosa serve?
Diachronic è di fatto uno strumento musicale, ma nasce come progetto artistico. Personalmente lo considero un artefatto digitale che tramite le sue modalità d’uso è in grado di imprimere un determinato tipo di movimento a materiale audio campionato.
Troppo spesso ho sentito parlare di problematiche inerenti il contesto artistico, lo spazio espositivo, il coinvolgimento del pubblico.
In questo senso ho scelto di creare qualcosa che potesse essere direttamente usato, gettato nel mondo, avere una valenza storica reale, pratica, non solo teorica o elitaria. La cosa interessante sono i molteplici usi che ne possono derivare, non completamente prevedibili da chi lo ha concepito.
Diachronic non è una macchina celibe, è appunto uno strumento che può essere usato per produrre musica, da ascoltare o da ballare, e serve per creare variazioni di velocità in tempo reale su frammenti audio prestabiliti.
Queste variazioni possono avvicinarsi all’effetto dello scratch se viene utilizzato in modo estremo, oppure a quello di un oscillatore se utilizzato su un suono dal tono continuo. Può essere impiegato nell’improvvisazione live, forte dei preset di riferimento che l’autore può registrare per non perdersi, oppure servire per la composizione in studio, anche inteso come loop editor.
Prossimamente ad esempio uscirà un disco dei Dadub su Stroboscopic Artefacts che comprenderà una traccia manipolata con Diachronic, che per ora alberga dentro Ableton Live.
E’ dotato di un’interfaccia creata arbitrariamente per rendere l’uso il più immediato possibile, ma potrebbe prendere anche altre forme, e qui alludo ad esempio alla dimensione hardware che lo renderebbe disponibile anche per l’impiego nella stage music.
Oggi il sound design è un aspetto fondamentale della musica elettronica, cosa vi incuriosisce di più di quest’approccio digitale?
Credo il cosiddetto sound design sia sempre stato un aspetto fondamentale della musica elettronica, solo che le procedure compositive si affidavano a ciò che gli strumenti dell’epoca rendevano disponibile come possibilità standard data dai prodotti delle grandi industrie.
Mi riferisco ad esempio alle possibilità di collegamento tra macchine Roland tramite lo standard DIN Synch, oppure all’editing di un suono FM su una Yamaha DX7, che al tempo era già fantascienza.
Ci troviamo oggi di fronte ad un passaggio di testimone, una consegna nelle mani dell’utente di quelle possibilità di editing, interfacciamento, sintesi, processing che un tempo erano, quasi esclusivamente, appannaggio degli ingegneri dell’industria.
Qui non mi riferisco alla sola esistenza di Max/Msp, o di Arduino, ma anche a tutto quel sottobosco di prodotti artigianali di sintesi, sincronizzazione, filtraggio ecc, che consentono all’utente di ricercare una propria combinazione di mezzi onde ottenere un dato suono, caratterizzare il proprio stile.
Beninteso, è finita l’età dell’innocenza nella quale si millantava l’esistenza del suono favoloso e stupefacente come forma quasi circense di spettacolarizzazione dell’elettronica.
Quello che risulta infatti più interessante in un suono è dovuto alla sua duplice natura. Non è possibile infatti pensare ad un suono al di fuori del suo svolgimento: mentre prestiamo attenzione alla sue caratteristiche timbriche veniamo al contempo investiti da una serie di fattori relativi alla sua dinamica.
La velocità alla quale viene suonato, l’andamento del suo volume, l’altezza della sua frequenza -che ne determina il tono-, sono cose determinanti, parti integranti dell’esperienza dell’ascolto.
Diachronic opera proprio attorno all’esperienza della velocità, della variazione tra rapporti di velocità, e al contempo del rapporto tra variazioni di velocità.
In questo contesto il sound design risulta essere l’esito di quello che si può definire propriamente speed design.
L’introduzione di questo rapporto di causalità tra velocità e forma definisce la variazione del suono caricato come una conseguenza della variazione della sua velocità di riproduzione, da qui lo slogan: Diachronic, playing speeds.
Tra l’altro tu sei anche famoso per aver ideato un software per fare musica insieme ai grilli giusto? Ci puoi raccontare com’è andata?
Si è trattato di una performance nell’ambito della rassegna artistica “Dolomiti Contemporanee” dell’estate 2011.
Il software in questione era proprio il primo prototipo di Diachronic.
Vista l’attitudine organica dello strumento, ho pensato di poterlo utilizzare per modificare in tempo reale il canto dei grilli: una stratificazione di frequenze che sembra in parte sfuggire alle possibilità dell’udito umano.
Non si è trattato semplicemente di un esperimento sonoro, bensì di un lavoro sul linguaggio.
Nel 2006 mi trovavo a Shanghai per una performance al Moca, nell’ambito della rassegna Nokia connect to art.
Nella parte vecchia della città, in piccoli vicoli medievali, alcuni manager mangiavano tartarughe bollite con le bacchette seduti su casse di plastica colorate, mentre all’angolo un tipo sulla cinquantina si lavava beatamente il culo nella fontana, probabilmente perchè non aveva l’acqua in casa.
Tra gli squilli dei cellulari dai motivi più assurdi emergeva un suono di fondo, vicino ma tiepido, quasi subliminale.
Mi avvicinai alla bancarella e vidi tante piccole teche piene di insetti, gabbiette di bambù con grossi grilli verdi, una specie mai vista prima. Il cinese rise guardandomi come se dovesse servirmi qualcosa. Gli feci un cenno per capire di cosa si trattasse, se di roba da mangiare o che cosa.
Il vecchio vicino alla gabbietta stava scegliendo il suo grillo e mi guardò scandalizzato.
Mi fermai ad ascoltare e scoprii che veramente suonavano tutti in modo diverso. Li compravano e li portavano a casa come fossero canarini, e li nutrivano con gli insetti più piccoli porgendoglieli con delle bacchette. Alcuni li usavano per fare combattimenti, scommettendo sugli incontri agli angoli delle strade fino all’arrivo della polizia.
L’esperienza sonora della Cina mi aveva incuriosito, così, tornato in Italia, mi procurai dei grilli, li registrai e potei osservare che reagivano alla riproduzione del loro suono.
I grilli non cantano, infatti, per divertirsi, ma per affermare il proprio territorio, riprodursi, dunque vivere. Attraverso le loro frequenze comunicano qualcosa e reagiscono a quelle dei propri simili. Fu così che per la performance decisi di procurarmi tipi diversi di grilli e di separarli in quattro teche: in una c’erano solo le femmine (più grosse dei maschi, emettono un suono intermittente secco). Alcuni erano veramente furiosi.
Tramite quattro microfoni gestivo i segnali derivanti dalle teche e con un mixer, un echo a nastro, e un impianto composto da otto speaker, mescolavo suoni originali a suoni modificati in tempo reale con Diachronic, muovendoli all’interno dell’hangar dedicato alla performance.
Il tutto era corredato da video girati con camera a infrarossi e proiettati su uno schermo in sala.
Tornato dalla Cina (con i grilli per la testa) decisi, inoltre, di produrre anche un’applicazione per intonare suoni secondo i toni del linguaggio cinese: fu così che nacque anche Chin Tonic.(https://www.facebook.com/chintonic.app.3)
Quali sono i tuoi ascolti attuali più ricorrenti?
Domanda difficile. Posso dire di aver sempre beatamente ignorato il mainstream.
Per chi ha vissuto gli anni 90 in fatto di techno ed elettronica rimangono tuttavia poche aspettative. Come accade per tutti i generi, e dopo anni di esperienze, credo che tutto riporti a cliché già metabolizzati. Si tratta di un fatto soggettivo, ma legato allo svolgimento oggettivo delle produzioni.
Raramente, oggi, capita di sentire novità vere e proprie, si tratta perlopiù di derivati da incroci o da edit di vario tipo, che generalmente si risolvono con la ripetizione dei soliti schemi.
Viviamo un’epoca di consolidamento commerciale e professionale di ciò che è accaduto in precedenza, un’evoluzione quasi silenziosa. Questa tuttavia non è una condizione necessaria: non è assolutamente vero che non si inventa mai nulla e tutto è già stato fatto, la storia lo dimostra.
Detto questo non è difficile immaginare che saltuariamente ascolto dei dischi tra quelli che conservo, a volte anche alla “play it again Sam”.
La lista sarebbe molto lunga e variegata, passando per Detroit, Chicago, NY, Miami, Kingston, Londra, Madchester, Nairobi, Abeokuta, Amsterdam, Rotterdam, Sheffield, Turku, Colonia, Ghent, Vienna, Berlino, Tokyo…Tempo fa ad esempio ho compilato una playlist di techno giapponese, che faceva da compendio ad un racconto confezionato per un numero sul Giappone edito dal magazine CBK.
Mettere assieme cose completamente diverse a volte mi permette tuttavia di studiarne i possibili incastri. Trovo interessante questo percorso laterale.
Ricordo che nel 94 a Bologna stavo suonando all’opening di una mostra un vinile di Aphex Twin, un Korg MS20, una cassetta al contrario su un 4 piste Tascam e credo un CD, forse di Richard H Kirk, tutto assieme. Ad un certo punto qualcuno mi ha chiesto: “scusa, chi sono questi?”.
A volte capita di scoprire qualcosa di interessante ascoltando Erika.net, una web radio che trasmette sempre musica di qualità, di vario tipo, anche se molto spesso devo dire non ascolto proprio niente.
Su Soundcloud si può incappare in cose veramente particolari, perlopiù sconosciute, ma anche in molta vera e propria spazzatura, mentre Youtube lo trovo già più canonico come juke box. La musica che preferisco da sempre tuttavia è quella che viene dai CD che si incantano nei bar.
Dopo trent’anni la Techno ha ancora qualcosa d’interessante da dire?
Negli anni 90 notavo che Jeff Mills durante il mixaggio creava dei piccoli sfasamenti tra le tracce che poi volutamente aggiustava in diretta, molti invece si servivano dei ritardi naturali tra i segnali di synch delle varie macchine analogiche per creare un effetto sincopato, altri ancora, come i berlinesi della Chain Reaction, utilizzavano un crossover e un delay a nastro per alterare la pasta ritmica e sonora, mentre i Pan Sonic con una macchina a 12 oscillatori tessevano trame che andavano ben oltre il sequencing comunemente inteso.
Oggi, in mezzo alla marmellata degli edit di house music, dei simil giri di basso alla Billy Jean, dei falsi groove alla Beltram e degli pseudo bleep alla Robert Hood, notiamo ad esempio che artisti come Jamal Moss e Ra.H esplorano l’errore, il fuori tempo, cercando figure ritmiche inedite, mentre Madteo interrompe volutamente la continuità narrativa nelle sue composizioni.
Sul fronte commerciale, d’altro canto, vi sono ora tecnologie che permettono a chiunque di montare tracce in diretta perfettamente quantizzate, acquistate -o anche no- online in formato digitale. Il motore del mercato sono proprio i wannabe manieristi, autori di tappezzerie sonore, aspiranti intrattenitori.
Gli artisti sono invece persone che sviluppano un proprio metodo, secondo una propria attitudine, sono questi che a loro volta andranno ad ispirarne di nuovi, in un dialogo continuo che finora si è sviluppato soprattutto tra una sponda e l’altra dell’Atlantico, isole comprese.
A mio avviso quello che potremo sentire di interessante non sarà certo l’esito di un utilizzo “industry standard” dei mezzi di produzione, vecchi o nuovi che siano.
Oggi Diachronic è alla versione 2.0, cosa dobbiamo aspettarci in futuro?
Era appena uscita la prima versione quando incontrai a Londra all’OtO Cafè un jazzista, Fred Lonberg-Holm, violoncellista di Peter Broetzmann.
Per improvvisare utilizzava una loopstation e una volta apprese le potenzialità di Diachronic mi chiese quando poteva avere una pedaliera con queste potenzialità in dotazione. Come molti musicisti da palco, ovviamente, non usava il computer, dunque per lui Diachronic risultava inaccessibile. Purtroppo non sono ancora riuscito ad accontentarlo. Ecco, credo che guardare alla dimensione dello sviluppo hardware, soprattutto visto l’interesse creatosi attorno ad Arduino, potrebbe essere una strada interessante, ma per ora non ho ancora trovato validi collaboratori. Anche la dimensione iOS è interessante, ma non è affar semplice.
Alcuni, d’altro canto, lamentano l’assenza di una versione VST e AU, per poterlo utilizzare in studio su altre piattaforme. Sarebbe interessante in merito a queste possibili prospettive avere un feedback da parte dei lettori tramite l’indirizzo giovanni@diachronicmusic.com. Per presa visione la prima patch è scaricabile gratuitamente qui: www.diachronicmusic.com.
Ora esiste una versione 2.0, arricchita con uno slice sequencer che ricorda quello disegnato da Kikumoto per le vecchie Roland.
Questo “fettinatore” ha reso più versatile lo strumento, permettendo di silenziare o normalizzare le parti (“fette”) meno interessanti della variazione.
In tal modo si possono scolpire esattamente i dettagli del loop caricato, sottoposto ad ogni sorta di variazione di velocità.
Con Diachronic 2.0 si possono pilotare anche parametri MIDI di tracce interne ed esterne, ed è possibile aprire più di una patch.
Credo ora siamo giunti al limite delle possibilità ragionevolmente utilizzabili all’interno di Ableton, per cui risulta doveroso guardare oltre.
Federico Spadavecchia