Blackest Ever Black Birthday @ Corsica Studios

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E’ stupefacente come le cose possano cambiare nel giro di appena un anno.
La techno si sta godendo alla grande il suo momento di popolarità al di fuori della solita loggia, una serie di volti nuovi si stanno affacciando sul panorama internazionale (con succose sorprese made in Italy) e la Blackest Ever Black è diventata definitivamente una label di culto.
La festa per il terzo compleanno della gang di Kieran Sande, che si tiene come da tradizione a Londra presso i Corsica Studios con la complicità dei promoter Bleed, registra il tutto esaurito (noi i tickets li abbiamo presi a maggio!!!) offrendoci l’occasione per giudicare in prima persona lo stato dell’arte.
Sabato c’erano in ballo parecchie verifiche da effettuare, prima fra tutte il minor coinvogimento del Black Pope in the Black Rome, Karl O’Connor, attualmente in full immersion con il lancio di Downwards USA, Jealous God e la partnership con Minimal Wave, quindi il netto spostamento dal post punk al noise e non ultima la prova dal vivo di alcuni dei nomi di punta dell’etichetta.
Con una line up molto ricca e le due sale del club di Elephant & Castle divise per live e dj set, il nostro viaggio nell’oscurità inizia sdraiati sul divano di fronte al bar cullati da A.D. Jacques che sostanzialmente si cimenta in un tributo ai Pan Sonic.
Subito dopo tocca già ai DVA Damas.
Taylor Burch e Joseph Cocherell sono californiani, e sono stati reclutati direttamente da Silent Servant per Downwards; inoltre dal vivo collaborano con sua moglie nei Tropic Of Cancer.
Lo schema dello show si rifà ai grandi maestri Chris & Cosey con Cocherell nel ruolo di manipolatore del suono (synth, Mac e percussioni) e l’androgino Burch nelle vesti, è proprio il caso di dirlo, della ex Throbbing Gristle con la chitarra percossa come fosse uno strumento ritmico.
L’insieme funziona ma non esalta.

Il nome più atteso del party è quello di Camella Lobo ed i suoi Tropic Of Cancer, in tour promozionale per l’album di debutto Restless Idylls (che noi abbiamo recensito qui n.d.r.).
Camella ai controlli (voce, synth Roland Gaia Sh-01, chitarra e Mac) e Taylor Burch alla seconda chitarra.
Gocce di spleen dilatano l’atmosfera come una pupilla stimolata dal collirio, l’attenzione è tutta per la signora Mendez ed il suo appeal da femme fatale. Promossa a pieni voti!
Il premio come miglior rivelazione della serata spetta però a una Dj: Helena Hauff.
Questa ragazza tedesca di appena 25 anni infiamma i cuori della sala 2, mescola vinili techno, acid ed electro senza soluzione di continuità dimostrando una tecnica ed una capacità selettiva fuori dal comune. Ne sentiremo parlare parecchio!
Ci lasciano invece perplessi gli Shampoo Boy di Peter Rehberg e Christian Schachinger (ci sarebbe pure Christina Nemec ma non era sul palco) che continuano sulla strada già ampiamente battuta delle chitarre trattate miste a noise.
Meno male che dopo c’è Russell Haswell, in un’insolita apparizione in consolle, che ci fa fare due risate con un set di spranghe e ironia.
Nella serata che doveva celebrare l’esibizione live sono stati i djset a stupire maggiormente.
Anche i pluri decantati Raime con dischi e cuffie sorprendono la folla e, al contrario dello scorso anno dove dominarono tratti wave e ambientali, sfoderano una selezione jungle, d’n’b e ‘ardkore degna del miglior Bang Face.
Lo speed garage di Horsepower Production (nome fondamentale per la nascita del dubstep) è ormai troppo lontano dalle nostre corde per comunicarci qualcosa.

Non male i Dalhous, reicarnazione dei fu Young Hunting, che palesano l’influenza dei Boards Of Canada ritrovando una dimensione più luminosa rispetto al passato; peccato che la performance si limiti ad un live p.a. con Ableton.
A questo punto il gioco si fa violento: sale in cattedra Dominck Fernow, stavolta come Prurient.
Messa per un attimo da parte la divisa militare di Vatican Shadow in favore di un pù classico chiodo nero, il noiser americano si esibisce spalle al pubblico sfogando la sua rabbia contro un freddo muro sonoro.
La violenza scenica di VS si trasforma in una spaventosa azione nichilista, cui gli spettatori non possono fare altro che guardare attoniti da fuori.
Lo spettacolo c’è ed anche la musica è di sostanza, ma certe idee iniziano a mostrare la loro età ed è quindi sperabile che Dominick pensi ad una nuova evoluzione.
La chiosa e la benedizione finale è compito di Regis.
Il trono della techno è saldo nelle sue mani (nonostante un giullare dispettoso come Russell Haswell s’intrometta nel discorso al popolo), Karl è oltre l’essenza della società industriale: dialoga con le macchine, ne detta tempi e compiti, sognando però un mondo che non sia soltanto una distesa di ingranaggi e ciminiere.
La Blackest Ever Black porta a casa un ulteriore successo e la consapevolezza di essere giunta ad un passo dalla vetta, dove però l’ossigeno è scarso e la pendenza ripidissima. Solo i migliori sapranno conquistare la cima.

Federico Spadavecchia

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