Innsbruck Heart Of Noise ’13

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Giunto alla sua terza edizione, il festival austriaco Heart of Noise ha presentato una line up ancor più ricca rispetto a quella dell’anno scorso, inanellando in cartellone una sequela di nomi che nulla hanno da invidiare a festival europei ben più noti ed imponenti.
Gli organizzatori sono riusciti a rimanere fedeli allo slogan scelto per l’occasione “Detroit, Berlin & beyond”, sia dal punto di vista delle scelte artistiche, sia nei fatti.
L’affluenza numericamente esigua però non ha assecondato queste ambiziose intenzioni e per tutti e tre i giorni si è dimostrata costante inaspettata. Un festival per pochi e fortunati eletti, insomma.
Mi preme sottolineare il fatto che lo spazio nel giardino antistante la Stadsaal -luogo dell’evento-  sia stato fatto costruire e lasciato in mano agli studenti dell’istituto di architettura di Innsbruck (imparate italians e università italiane, imparate).
Il primo giorno è segnato indelebilmente da un trittico incredibile: dopo una titanica mangiata tiroler, acciuffo il pass e mi butto a capofitto nella grande sala accogliente e si parte subito in pompa magna.
Spetta a Thomas Koner inaugurare il festival e presentare la seconda parte inedita della trilogia “Novaya Zemlya”, inaugurata l’anno scorso su Touch.
Il tedesco metà dei Porter Ricks, rappresentante  numero uno dell’ambient-drone più glaciale (indimenticabili gli album su Mille Plateaux) e grande sperimentatore in fatto di arte audio-visiva, sale sul palco e ci delizia con un’ora abbondante di “deflagrazioni artiche” (i visual a sfondo polo nord aiutano), algidi droni sui quali si stagliano fumate nere e lunghe pause che fanno da collante all’intera struttura sonora.
Subito dopo ecco il live più atteso dal sottoscritto: Gerald Donald e consorte, ergo i Dopplereffekt in carne e cyber-ossa.
Me li aspettavo esattamente così: techno replicanti in piena tradizione detroitiana.
Uno di fronte all’altra, mascherati e armati di synth, i due renegades of funk durante l’intera durata del live non interagiscono minimamente con il pubblico e sembrano usciti da un romanzo di Philip K. Dick o da una qualche porta spazio-temporale.
La loro ora e mezza fila via in modo egregio tra pezzi inediti ed echi che sembrano presi da “Calabi you space” e “Scientist”, per poi lasciare posto a LUI, the Wizard.

Io rischio di diventare un mezzo hooligan imparziale quando si tratta di difendere zio Jeff, ma negli ultimi due anni mi sono spesso trovato a rivedere un attimo le sue recenti evoluzioni -e mi riferisco soprattutto al lavoro da lui svolto in fase di produzione: fin troppo prolifico in studio, ma ancorato ai soliti loop. Invece il Mills che si presenta un giovedì sera estivo qualunque nella ridente Innsbruck sembra il “mago” dei tempi d’oro: fa ruggire a dovere i sei cdj 1000 a disposizione, ripropone una rivisitazione del progetto “The trip”, che aveva già suonicchiato in poche altre occasioni (alla Roundhouse di Londra nel 2009 e al “Les utopiales” di Nantes nel 2012) e pare proprio ispirato, riuscendo ad instaurare un contatto mistico e impercettibile con l’intera platea del festival a cui regalerà, oltre ad un bis del progetto, un tris con grandi classici da lacrime agli occhi: oltre al solito “The bells” arriveranno “The hacker” e un’inaspettata “Inner Self” velocizzata, firmata Millsart.

Il venerdì, con gli splendidi e ipnotici visual di “The trip” ancora in mente, ci si dirige all’ultimo piano del grattacielo Pema, per un live open air di Voices From the Lake.
In apertura una tizia -propinataci dall’organizzazione- che manco compariva sul programma ufficiale da quanto dev’essere apprezzata nel giro, tenta di mixare in modo creativo servendosi di un grammofono, non riuscendoci.
Mezz’ora abbondante di orchite e poi ecco i nostri techno-ambasciatori Neel e Dozzy: tripudio.
Immaginatevi un rooftop party con il mapping migliore della storia: nuvole cariche di pioggia in arrivo, vento inaspettatamente a tempo con la musica, scenari alla “Autobahn” dei Kraftwerk con assi attrezzati che si snodano in mezzo alle catene montuose alpine alle spalle dei due e il loro set sperimentale inedito, che risente fortemente dell’influenza minimalista a loro cara – mi riferisco soprattutto a Steve Reich.
I due si completano: Neel al laptop modula i suoni mentre Donato, mente del progetto, gestisce la parte analogica.
Tra gli ultimi paladini dell’elettronica italiana riconosciuta a livello mondiale, grazie anche all’album uscito per Prologue un anno fa.

Tornato alla Stadsaal mi gusto prima Mark Fell degli SND in grande spolvero, che propone un formidabile set in bilico tra Raster-Noton e Edition Mego; poi mi subisco l’unico show veramente affollato del festival, ovvero quello dei padroni di casa Elektroguzzi.
Bravini sì ad intrattenere, ma alla lunga estenuanti.
Questo alone di positività grazie a Odino viene presto abbattuto e preso a picconate da Dominick Fernow, poco dopo… alle prime bordate targate Prurient/Vatican Shadow gli hipsteroni locali battono la ritirata e si danno alla macchia.
Dominick nonostante sia recentemente diventato una sorta di ghiottolino sovrappeso salta, si dimena, fa headbangin’ e fomenta il pubblico, piazzando pezzi oramai diventati puro cult come “Iraqui praetorian guard”, “Cairo is a haunted city” e “Through the window”, più una manciata di tracce techno industriali che probabilmente pubblicherà in futuro. Monolitico. La palma d’oro nero HON 2013 è tutta sua.
Andy Stott chiude la serata in modo impeccabile, ma dopo un live al fulmicotone come quello di Fernow è parecchio difficile reggere il gioco.
Non a caso dopo un set veramente notevole in cui rivisita quasi interamente per la dimensione live il suo “Luxury Problems”, il producer mancuniano di casa Modern Love si abbandona ad un bis, a mio avviso inserito un po’ alla meglio, a base di drum’n’bass Metalheadz-iana. Peccato.
L’ultimo giorno parte subito male quando veniamo a sapere della defezione di Terrence Dixon, ma il nostro Luca Sigurtà, pilastro della scena sperimentale italiana, ci farà passare il dispiacere tirando fuori dal cilindro una performance qualitativamente egregia, tra “rumorismi”, glitch e drone, servendosi esclusivamente di  macchine analogiche e microfono.
Questi sono gli artisti che dovrebbero essere valorizzati ancora e ancora qui da noi.

Non male neanche lo show di Billy Roisz, in pratica una specie di Alva Noto al femminile, sia musicalmente sia per quanto riguarda i visual.
Poi è il momento di Oren Ambarchi, chitarrista rumorista ma soprattutto punto di riferimento per il noise e la musica sperimentale tutta.
Il musicista australiano che ha collaborato con Stephen O’Malley, Keiji Haino, i Boris, Z’ev e tantissimi altri, e ha inciso per etichette importantantissime come Staalplat, Kranky e Tzadik, regala al pubblico sferzate di violenza noise inaudita e ogni schitarrata distorta brucia come sale sulle ferite.
Successivamente gli Shampoo Boy, nuovo super gruppo fondato da Pita della Editions Mego, che esordiscono dal vivo per collaudare il loro primo fenomenale ep “Licht”.
Nutro una certa impaziente attesa nei confronti del loro gig, che purtroppo non viene soddisfatta: il concerto non sarà affatto eccelso in quanto minato da problemi tecnici (soprattutto a scapito della bassista Christina Nemec) e per forza di cose (visto il materiale prodotto), cortissimo a livello di minutaggio.
A conclusione di questo festival che mi ha fatto veramente una gran bella impressione -anche se deve fare ancora tantissimi passi in avanti riguardo alla comunicazione- il nuovo santone techno Shackleton (menzione d’onore alla sua camicia hawaiiana più Crocs ai piedi).
I tempi della Skull Disco sono lontani anni luce: ora il suo dj set consiste in un paio di ore abbondanti di mantra-afro-techno-tribale con tamburi, come se si finisse in un b2b di metadone tra Fela Kuti e Mark Archer, più inserti vari presi e inseriti sporadicamente da “Music for the quiet hour” e dagli ep “The Drawbar organ” e “Man on a string”.
A coronare il tutto un bel biergarten alle 10 di mattina… blurp.

Francesco Augelli

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