L’Italia al Tempo della Club Culture

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Sorrido sempre amaramente quando sento i media italiani parlare di Club Culture. Anzi per essere precisi, il termine Club Culture non l’hanno mai preso in considerazione, preferendo usare, a sproposito, la parola Rave, che d’altronde quando ci scappa il morto fa più audience.
Come fai a vender copie se la scena del delitto è un evento culturale? Sai le risate del pubblico che s’immagina lo sventurato di turno impasticcato di Zigulì o sballato di Amarone?
Se riprendete su Youtube i programmi Tv di ormai quasi 30 anni fa (Minoli, Giuliano Ferrara, il TG2 Dossier tra i tanti che si sono occupati della questione) è impressionante constatare come le domande poste e le frasi fatte siano rimaste le stesse, invariate nel tempo: “Ma come fate a divertirvi con questa musica tutta uguale?“, “La gente in discoteca se non si droga non si diverte“, o l’intramontabile: “Ma questa non è musica vera!“.
Così mentre nella nostra nicchia conduciamo campagne sanguinarie in nome del purismo del vinile o della DDR (Digitale Demokratische Revolution), nel mondo reale l’opinione più diffusa è quella di guardare alla musica elettronica come una fase dell’adolescenza, che dopo il periodo degli studi scompare senza troppi strascichi.
Chissenefrega allora di sapere la differenza tra il Sonar ed un Teknival qualsiasi sotto il cavalcavia, tra il Berghain e il Billionaire e figuriamoci poi quella tra Aphex Twin e Psy.
L’apice del paradosso l’abbiamo raggiunto all’ultimo Club To Club di Torino, quando è toccato a noi, riviste e blog specializzati, massoni del suono più oscuro cui competerebbe il ruolo dei rompicoglioni pignoli, scrivere reportage istituzionali, perchè nessun quotidiano ha ritenuto interessante occuparsi di una manifestazione in grado di attirare più di 20 mila persone, proponendo melodie alternative a quelle radiofoniche.
Vogliamo incoraggiare eventi come ad esempio S/V/N/ Machines al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano ed il Dancity di Foligno anzichè ostacolarli? Ai comuni servono soldi? Che vadano a chiederli ai locali commerciali!
L’underground italiano è tra i più ricchi in circolazione, e dopo tutto questo tempo è intollerabile che non goda di un pieno riconoscimento.
La grande differenza rispetto all’estero è che oltre confine hanno capito che le sottoculture giovanili sono una risorsa con un concreto valore, per di più in grado di alimentare business, in primis il turismo.
Per molti di voi questi saranno problemi ben noti, ma ho sentito l’urgenza di scriverne quando ho visto il sito del Goethe Institut, la voce ufficiale della cultura tedesca nel mondo, dedicare nella propria sezione di musica elettronica (!!!) un articolo all’esplorazione della Club Culture nazionale al di là di Berlino (dando quindi per scontato che tutti conoscano bene la scena della Capitale).
Possibile che da noi non ci sia speranza?

Federico Spadavecchia

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