Il termine “techno” è stato spesso fonte di polemiche e discussioni. Questo perché è stato quasi da subito utilizzato per descrivere non solo la musica elettronica che veniva fatta da alcuni artisti di Detroit, patria della Techno, ma tutta la produzione musicale elettronica scaturita dalla fine degli anni ottanta a seguito dell’esplosione del fenomeno rave in Europa.
L’house e la techno stavano ridefinendo la musica moderna, completando un lavoro di ammodernamento delle modalità produttive e stilistiche già iniziato prepotentemente con l’hip hop qualche anno prima. Eppure il rave, con la sua potenza iconico/aggregativa, ha in parte oscurato questa rivoluzione musicale in atto, spostando l’attenzione più sugli spazi performativi della musica stessa e sui loro significati sociali intrinsechi che sulla musica che vi veniva suonata.
Tutto ciò è avvenuto in maniera spontanea. Nessuno ha pianificato nulla. Anzi, centinaia di fanzine e free mag negli anni novanta esaltavano la musica ed i suoi protagonisti a dispetto dell’evento, ma il cambiamento portato dai rave è stato tale che era impossibile contenere e controllare quello che accadeva. Come uno tsunami sonico, il rave ha fagocitato tutto.
Questo almeno per alcuni anni. Quando poi il fenomeno rave si è affievolito, involvendo in sé stesso fra pulsioni commerciali e problematiche organizzative di ordine pubblico, l’attenzione è tornata sulla musica. Il problema è che la scena elettronica post rave aveva già generato miriadi di sottogeneri musicali, creando ulteriore confusione fra i tanti fruitori di questa nuova musica che nel frattempo si era fatta cultura a parte in un mondo arretrato.
Non dimentichiamo inoltre che la peculiarità della techno e suoi derivati fin dall’inizio è stata che, nonostante fosse ascoltata e ballata da centinaia di migliaia di persone nel mondo, aveva delle vendite da mercato indie. Nella techno non si è mai creato un rapporto solido fra fruizione e ricerca del prodotto fisico (il disco o il CD) come è successo ad esempio con il rock. Questo ha creato ulteriore difficoltà nell’affermarsi degli artisti in senso lato che venivano spesso ricordati più per quello che suonavano come dj o live act, che per quello che producevano.
La discussione sul purismo degli stili è stata quindi molto spesso argomento di masturbazione mentale fra addetti ai lavori o artisti stessi, generando anche forti spaccature e diatribe. Personalmente ho sempre creduto che la techno fosse un genere rivoluzionario, più dell’house. Al pari dell’hip hop, è riuscita ad allargare il concetto di canzone, eliminando di fatto la struttura classica composta da strofa e ritornello e introducendo, anche in maniera involontaria, concetti e metodologie compositive provenienti dalla musica più colta, come quella dell’elettronica ‘classica’ o concreta.
Questo ha aiutato notevolmente il genere a sorpassare i ristretti confini di un rave, festival o club che sia, ma ha contribuito incredibilmente al suo mutamento da genere matrice a genere contenitore. Dove per ‘genere matrice’ si intende uno stile nuovo che, partendo da elementi noti, crea nuove prospettive sonore e per ‘genere contenitore’, uno stile che trascende la sua natura musicale innestandosi nella cultura quotidiana. Se vogliamo metterla giù brutale, la differenza fra blues e rock.
Oggi come oggi, la techno in senso lato è il rock dell’elettronica. Circondata da mille sottogeneri che hanno preso da lei linfa vitale e ispirazione (l’ultima potente filiazione è sicuramente il dubstep), la techno rappresenta agli occhi di molti il ‘prometheus’ dell’elettronica moderna. Un ‘moloch’ granitico che raccoglie differenti pulsioni espressive che rappresentano fortemente la netta frontiera fra vecchio e nuovo, fra realtà e utopia.
E’ indubbio però che alcune evidenti incompatibilità abbiano intaccato fortemente la sua solida essenza. Ad esempio le visioni minimali di Richie Hawtin, mal si sposano con la furia espressiva di Dj Rush, nonostante entrambi rifuggano la melodia. Come anche certi esperimenti troppo cerebrali di fusione con altri stili come il jazz (vedi Carl Craig ed il suo Detroit Experiment o molti brani di Garnier) sfocino nel manierismo.
Ovviamente sento già il levare di scudi in difesa di questo o quell’artista, ma, aldilà dei personali gusti che ognuno può avere per qualsivoglia dj/producer o stile, se analizziamo la nascita della techno e le sue prime uscite su Metroplex, Transmat e KMS, per non parlare delle successive produzioni targate Underground Resistance, ci si rende immediatamente conto che avere un confine aiuta. Essere limitati nel proprio essere virtualmente illimitati, contribuisce alla costruzione di uno stile originale.
In questo modo e tornando alla domanda da cui siamo partiti, forse la techno rischierebbe di svanire, fagocitata da una nuova moda o stile musicale, ma sicuramente non avrebbe mai la possibilità di diventare macchietta di sé stessa. Tornando al paragone fatto prima, per me la techno è stata ed è molto più vicina al blues che al rock. Anzi è proprio il blues del XXI secolo: una musica circolare, intensa, gioiosa e sofferta allo stesso tempo, che rappresenta al meglio il vivere urbano dei nostri tempi, senza distinzione di sesso e razza. Una musica universale per generazioni che hanno lo sguardo verso il futuro ed i piedi ben piantati nel presente. Ed in questo, onestamente non vedo limiti.
Andrea Benedetti