Blackest Ever Black Night @ Corsica Studios

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Avanti facciamo un bel respiro e torniamo a sabato mattina, quando stavamo correndo verso l’aeroporto. Destinazione: Londra. Il countdown è iniziato: 19 ore al termine.
La Capitale inglese è da sempre una città oscura e misteriosa, uno dei vertici del triangolo della magia nera, il centro di ogni complotto massonico.
No, non siamo banchieri del Vaticano in fuga con una valigia piena di soldi ed una condanna sulla testa, ma semplici appassionati pronti a scoppiarsi un paio d’ore di volo per una notte di ottima musica.
La Blackest Ever Black è il cuore del rinascimento Techno europeo, anche se forse sarebbe più corretto parlare di Post Punk con un’attrazione fatale per l’elettronica. Come nel periodo d’oro tra il 1978 ed il 1984, splendidamente raccontato da Simon Reynolds, alla base di tutto c’è la voglia di sperimentare e di scoprire percorsi inediti rovesciando l’ancien regime.
Niente giochini e hit per spiagge assolate insomma, ma la torbida ricerca di chi ha per le mani un libro d’incatensimi proibiti e vuole riportare in vita uno spirito che ormai era considerato svanito nella storia.
Il responsabile di tutto questo è Kiran Sande, l’editor di FACT, il quale tuttavia non è solo, anzi alle sue spalle c’è un’eminenza grigia o, per dirla alla Reynolds, un manipolatore occulto, il cui nome non appare direttamente nella ragione sociale dell’azienda ma supervisiona ogni progetto e detta la linea.
Stiamo parlando di Karl O’Connor in arte Regis, fulcro della scena fin primi anni ‘90.
L’elenco di collaborazioni che l’hanno visto protagonista è quasi infinito, per citarne alcune ricordiamo: British Murder Boys con Surgeon, Sandwell District con Function, Ugandan Methods insieme agli Ancient Methods che diventa Ugandan Speed Trials quando si unisce loro Mick Harris.
Il trasloco a Berlino ed il sodalizio con David Sumner segna il risorgimento del klang continentale, in un continuum che lo vede naturale step successivo all’altrettanto rinata dub tech tra Hardwax e Berghain. Diversamente dalla Techno di matrice americana qui l’elemento funk viene annichilito, preferendogli il rigore/rumore bianco di tradizione brutalista rifiltrato attraverso il minimalismo imperante negli anni zero.
Adesso si tratta di compiere un salto nel passato per catapultarsi nel futuro: nel 2011 Regis con la più classica delle azioni punk chiude Sandwell District con la scusa che le label non servono a nulla (ma continuando ad alimentare il mercato con le richiestissime ristampe), e contemporaneamente torna alla carica con la sua vecchia Downwards, mettendone però da parte l’influenza Chicago, per concentrarsi sull’estetica d’eredità punk, anche dandosi da fare con la BEB per la quale è una sorta di figura paterna che ispira e sostiene.
La festa ad Elephant & Castle può essere considerata come il primo showcase al gran completo degli uomini in nero e per questo motivo le aspettative sono alle stelle.
A darci il benvenuto sono i Young Hunting tra meditazioni gotiche e rituali technologici, tuttavia per qualche imprecisato problema devono interrompere la performance prima del presvisto.
Black Rain è invece un mix delle remiscenze sonore di Stuart Argabright, attivo già ai tempi della No Wave newyorkese negli Ike Yards tra il ‘79 e l’83, e quindi icona electro con Dominatrix dal ‘93.
Continuando a parlare delle esibizioni dal vivo il premio per lo show più bello va a William Bennet alias Whitehouse aka Cut Hands, anch’egli sopravvissuto della new wave, che oggi si ripresenta con un’idea affascinante: i ritmi africani tanto cari a Shackleton vengono sfigurati con l’acido e fatti marciare a colpi di manganello, mentre la strobo violenta la pista.

Del duo Concrete Fence per motivi legali fino a pochi giorni fà era nota solo l’identità di uno dei componenti vale a dire Russell Haswell, il genio della moderna power electronics.
Chi dunque meglio dell’ubiquo Karl O’Connor poteva affiancarlo in quest’avventura?
I rumori generati dalle macchine infernali di Russell vengono squadrati in 4/4 dal nostro hooligan preferito, ed hanno l’impeto di un frontale contro autotreno!
Essendo comunque un debutto ci sono ancora dei dettagli da aggiustare, per esempio le tracce non sono perfettamente omogenee quando è il primo a dirigere le operazioni.
L’ultimo live in programma è alla sua prima volta in Inghilterra ed il pubblico è tutto per lui: Vatican Shadow.
Dietro ad un tavolo occupato da sole macchine analogiche, e con indosso una divisa militare (coerentemente con le copertine dei dischi), c’è Dominick Fernow, famoso noiser americano e boss della Hospital rec. (l’etichetta su cui è uscito l’album di Silent Servant per esser chiari), che si dimena come fosse posseduto dal fantasma sanguinario di un qualche dittatore piscopatico.
La sua è una techno d’assalto sparata con un M60 Vulcan, e i ragazzi sono un plotone allo sbando.

Per quello che attiene ai dj set c’è da sottolineare come sia trattato più che altro di selezioni d’ascolto (Raime, Bruce Gilbert (dei mitici Wire), Jack Rollo, Conor Thomas, A.D. Jacques,Bill Kouligas, e perfino Powell), con l’eccezione dei set finali affidati in sala 1 a Jim Baker (metà del leggendario act jungle Source Direct) ed in sala 2 a Regis, chiamato a sostituire il non pervenuto Slimzee.
E’ mattino, un aereo ci aspetta e dobbiamo toglierci il cappuccio nero ma dopo questa lunga notte siamo certi che fin tanto che regnerà l’oscurità il futuro della musica non potrà che essere luminoso.

Federico Spadavecchia

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