Kode9 & The Spaceape “Black Sun” (Hyperdub)

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E’ passato qualche anno da quel Memories of the future che fu araldo dell’ascesa di Burial e più in generale del Dubstep, che da quel momento lasciò le cantine di Bristol e South London per imporsi come fenomeno globale. Quello che era un semplice blog presto divenne il faro oscuro del genere, scoprendo talenti e sfumature diverse. Oggi Kode9, comandante in capo dell’Hyperdub, torna ad incontrarsi con Spaceape per una nuova avventura su lunga distanza; certo la situazione è parecchio cambiata rispetto agli inizi, ormai da considerarsi old school, il Dubstep “classico” non esiste praticamente più e lo stesso Steve Goodman (Kode9) lo ha sempre considerato come una delle mille nicchie di quella grande galassia che è il post garage. E’ necessario trovare soluzioni inedite. Appare chiaro fin da subito quindi che, sebbene l’impostazione tecnica sia rimasta pressocchè la stessa dell’esordio, Black Sunsegna un importante passo avanti.
Se il disco precedente era il futuristico racconto di scenari alla Blade Runner e musicalmente definiva lo schema del Dubstep, in questa nuova prova le atmosfere nebbiosamente paranoiche sono la base sulla quale la calda voce di Spaceape canta di una società al collasso la cui umanità viene prosciugata da un buco nero nel cielo.
Qui il beat è quello della neonata corrente future garage (ultima risposta nel dibattito sull’hardcore continuum) e, nonostante il senso di malessere interiore trasmesso da questa Londra dickensiana dove al posto dei fumi delle fabbriche vi sono acide melodie sintetiche, il disco mantiene un alto grado di attaccamento alla pista svelando bassi istinti funky senza disdegnare nemmeno il 4/4. Il rito di ipnosi collettiva portato avanti dal vocalist non lascia scampo, dimostrando che il suo ruolo non è un’aggiunta superflua (addirittura una distrazione fastidiosa per qualcuno), ma che anzi è parte integrante degli ingranaggi cibernetici del progetto. L’ultimo atto spetta alla collaborazione con Flying Lotus: una traccia priva di percussioni in cui emozioni e filtri alternano stati di angoscia ad un’euforica malinconia.
Un po’ come negli anni ’90 i ravers sono dipinti come sopravvissuti ad un’immane sciagura (e l’olocausto nucleare possiamo ora dire di averlo visto da vicino) che nel buio dei capannoni industriali attraverso il rituale del ballo propongono nuovi contatti sociali guidati da quello sciamano postmoderno che è il Dj. E che stavolta si chiama Kode9.

Federico Spadavecchia

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