Ci ha messo davvero poco tempo la notizia della messa in vendita del Fabric a sconvolgere le giornate dei clubbers continentali che, in preda al panico, iniziano a chiedersi se questa sciagura non sia l’inizio dell’ultimo disco sul piatto.
Per quello che mi riguarda non penso che il destino del club inglese possa segnare anche quello della scena elettronica internazionale, quanto piuttosto mette in luce ancora una volta come il mondo dei Dj rimanga sempre vittima dei medesimi errori.
L’avevamo già visto dapprima con la progressive, poi con l’house e quindi con l’electroclash (qui meno evidente perchè la minimal stava già incalzando): quando un trend termina il suo ciclo il pubblico, rimasto privo di punti di riferimento, diserta i locali (chiaramente stiamo parlando di discoteche commerciali) ai quali, avendo speso una fortuna in cachet spropositati per accaparrarsi il nome del momento, non restano che due vie: riconvertirsi, intuendo la prossima tendenza, oppure chiudere bottega.
La crisi internazionale ha soltanto impedito il solito teatrino dei pagherò a 5 anni (e delle serate a base di ospiti internazionali + veline) perchè le banche a corto di liquidi hanno tirato i cordoni della borsa e di conseguenza messo in difficoltà un sistema che per sua natura non può basarsi sulla razionale gestione d’azienda.
Nel caso specifico il Fabric era emerso alla fine degli anni ‘90 proprio grazie al fallimento dei Superclubs stile Cream e Home (costretti a tirar giù la serranda proprio perchè doppiamente incapaci: da una parte di sostenere le spese di mantenimento e dall’altra di generare introiti sbagliando le residenze (preferendo la prog house ai grooves techno/breaks ed alla ben più mainstream trance che stava per impossessarsi delle charts britanniche)), ed alla sua programmazione all’avanguardia.
In altre parole l’organizzazione aveva capito che per imporsi come punta di diamante della scena era necessario consolidare la propria reputazione nell’underground di modo da poter sempre contare su uno zoccolo duro di fans.
Prima di pagare fior di sterline Dj dal nome altisonante sarebbe stato meglio investire in buoni residents capaci di attrarre costantemente il pubblico senza far sentire la necessità dell’ospite a tutti i costi.
Questa politica ha fatto sì che il Fabric diventasse il simbolo della Techno inglese, meta di migliaia di dance tourists, dove gli artisti di fama fanno la fila per potervi suonare.Ma adesso, dopo il club, le famosissime compilations e la label avranno pensato, secondo una mentalità tipica degli anni ‘90, che era giunto il momento di fare il passo definitivo nel mondo dei businessmen con una nuova struttura tutta dedicata ai mega eventi senza però aver compreso che li stavano GIA’ facendo.
Il Matter è finito per essere la copia di quello che fu l’Home (ironia della sorte il primo rivale del Fabric) con gli stessi pregi (design, impianto, location) e difetti (costi, ubicazione, problemi amministrativi e di direzione artistica).
Morale della storia: siccome il Regno Unito non è l’Italia, dove le imprese indebitate continuano a vivere come zombie, ai ragazzi è toccato mettere in vendita il ramo d’azienda produttivo per sanare i puffi contratti con l’altro locale.La prospettiva di chiusura di questi due clubs, unita ad un giro di vite sui permessi rilasciati dalle autorità cittadine, non deve però far pensare al canto del cigno per un mondo come il nostro da sempre in crisi (quando mai discografici e promoter si sono detti soddisfatti?!) e regolato da cambiamenti strutturali velocissimi.
Quello che deve far riflettere, come scritto nell’articolo del Guardian, è che a far sballare del tutto i conti siano i compensi dei Dj saliti ormai al di sopra di ogni ragionevolezza, in ragione del fatto che basta il loro nome sulla locandina per riempire una serata che a parità di proposta artistica con un Dj meno conosciuto sarebbe stata vuota.
Di qui è facile comprendere la responsabilità del pubblico, unico elemento indispensabile in un ambiente in cui si è riusciti a fare a meno persino dei dischi, cui spetta decretare il successo di un party con la propria presenza.
Lasciate perdere quindi i discorsi su vinile contro mp3, underground contro mainstream ecc…quanto piuttosto concentratevi su voi stessi per divenire consapevoli di cosa volete veramente ascoltare perchè a forza di farsi guidare dal marketing andremo incontro ad un collasso dopo l’altro fino a quello mortale: i gestori non vorranno più investire in attività poco redditizie ma molto dispendiose, i Dj venderanno direttamente via internet sia le tracce che i djset, e andare a ballare non sarà più un bisogno così importante.
Federico Spadavecchia