Renato Figoli “Dirty & Lost” (Tanto Quanto)

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Tra tutti i nomi nuovi dei produttori di musica elettronica da club esplosi negli ultimi anni, a livello nazionale, il più interessante è sicuramente quello di Renato Figoli: questo ragazzone cagliaritano, infatti, non soltanto si è imposto in Europa (stampando su label blasonate come la Trapez di Colonia) con la sua miscela di rigor minimal e funk pungente, ma è anche riuscito nella non facile impresa di portare alla ribalta il fiorente sottobosco techno della Sardegna, dando vita ad una vera e propria scuola che può vantare talenti del calibro di Matteo Spedicati, Mr. Bizz, Andrea Ferlin ed il tanto giovane quanto ormai affermato Alessio Mereu.

Oggi Renato si spinge ancora oltre ed entra in un territorio che per un artista techno è peggio di un campo minato: pubblicare un album.

Ho perso il conto di quanti bravi Dj’s, spinti da quel bisogno mai troppo nascosto dell’essere considerati musicisti come gli altri, si sono letteralmente bruciati dopo aver dato alle stampe brodazze pompose prive di qualsivoglia utilità: troppo fiacche per il dancefloor (di solito si pensa che per essere intellettualmente accettati basta togliere la cassa), ma comunque inadatte per l’ascolto casalingo (e Dio ci scampi da questa mania di coinvolgere le orchestre…). Altri, invece, commercialmente più furbi si sono limitati al compitino di raccogliere su cd le loro hits più riuscite.

Figoli, però, ha dalla sua almeno un paio d’assi nella manica: una profonda conoscenza delle sue fonti d’ispirazione che entra in costante contatto con uno spirito ironico e mediterraneo.

In effetti è proprio guardando alle sue origini che si può comprendere quel sound così esteticamente inquadrato ma al tempo stesso vivace e frizzante. Di padre italiano e madre tedesca Renato sintetizza le caratteristiche tipo di questi due mondi sonori, Kraftwerk vs Tarantella, con l’aggiunta di passioni particolari per i produttori hiphop americani alla Neptunes (“Pharrell è un genio” mi disse qualche tempo addietro) e per la Basic Channel di Berlino.

“Dirty & Lost” richiama quasi un linguaggio da disco rap, ma in realtà non è altro che un mini(mal) riassunto di ciò che vi è contenuto: gli sfrigolii (giuro che questa non è voluta), le micro percussioni sono appunto elementi tipici della produzione finto low-fi stile Pharrell, ma al contrario dell’artista americano Renato non lascia spazi vuoti, stratifica il tutto con una serie di synth funky e dub uno sull’altro.

L’ascoltatore si è quindi perso non riuscendo più destreggiarsi tra ciò che è semplice ascolto da poltrona e ciò che invece vorrebbe un intenso lavoro di glutei; come nella musica classica o nella maratona abbiamo una suddivisione in movimenti (e successivamente in fughe): Iniziando, progredendo, funk run, easy run, dark run, last run.

A completare l’opera ci sono l’intermezzo housettone di salt & padde, e se come naturale ultimo sfogo delle suddette fughe vi è The Dancer (in cui nelle prime battute mi sembra di notare un richiamo alla scuola di Francoforte degli anni ‘90), per l’afterhour è pronta Beata Ignoranza (esempio perfetto di estetica figoliana per quanto riguarda i titoli) perchè è solo dopo una certa ora che tutti ballano su pezzi difficili col sorriso sulle labbra e senza chiedersi perchè (e forse sotto alcuni aspetti godendosela di più).

Ultimo brano dell’lp è la misteriosa ICE 582 con i suoi richiami ai progetti più soft e jazzy made in Detroit.
Ecco nel caso di “Dirty & Lost” si può parlare davvero di album: belle canzoni legate insieme da una struttura propria ad andamento costante a testimoniare la crescita di un artista partito dalla minimal, contagiato dal groove ed ora un passo avanti alla nu house, no qui non si tratta di 3 tracce decenti più 7 riempitivi.

D’altronde la migliore qualità espressa da Renato sta in queste sue parole: “Io faccio un disco solo quando ho qualcosa da dire”.

Federico Spadavecchia

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