Quante volte mentre dormiamo facciamo un bel sogno dal quale non vorremmo più destarci? E allo stesso modo quante volte succede di imbattersi in un incubo che ci fa quasi cadere dal letto?
Putroppo però la cosa peggiore a cui si può andare in contro è svegliarsi da una fanatasia meravigliosa e ritrovarsi in un una realtà così fredda e orribile da non essere neanche lontanamente paragonabile al nostro peggior incubo ricorrente.
In poche parole vi ho riassunto lo stato d’animo di tutti gli appassionati della Techno made in Detroit intervenuti al PalaIsozaki di Torino per la seconda puntata della serata targata Movement, che vedeva protagonisti Mike Banks e gli Interstellar Fuggitives, Derrick May e Stacey Pullen.
Con le immagini ancora negli occhi dello splendido evento dell’anno scorso, le aspettative per questo nuovo appuntamento con gli eroi della Motor City erano altissime e l’ipotesi di un eventuale insuccesso non erano state nemmeno prese in considerazione anche se il buon senso avrebbe fatto intuire il reale stato delle cose.
A ben ragionarci, infatti, il risultato straordinario ottenuto dall’edizione passata era stato essenzialmente frutto della collaborazione di più staff e del contributo apportato dal Comune e da grandi sponsor, su tutti la FIAT, per festeggiare alla grande la chiusura dell’anno olimpico, senza contare che la bassa affluenza di pubblico ha giocato un ruolo decisivo nel rendere l’atmosfera piacevole e vivibile.
Quest’anno, invece, in capo al progetto è rimasto un unico staff che per quanto animato dalle intenzioni più nobili (ho avuto modo di conoscere i responsabili di persona e sulla loro buona fede non ho alcun dubbio..) non ha potuto far altro che arrendersi a quegli odiosi compromessi che da sempre spadroneggiano nella club culture del nostro Paese, con la conseguenza che per far fronte all’imponente spesa derivante da una struttura come l’Isozaki diventa fondamentale mirare al tutto esaurito coinvolgendo una platea molto più ampia di quella dei soli (e soliti visto che certe facce ormai le vedo in oqni situazione marchiata UR) technofili, andando quindi a snaturare l’intero spettacolo.
All’arrivo, verso mezzanotte, la situazione mi appare subito chiara: migliaia di persone che prendono letteralmente d’assalto le sei misere casse dove poter acquistare il ticket, senza alcun rispetto per nessuno come fossero una mandria di bufali inferociti, pensare di seguire una coda ordinata è pura utopia. Mi tornano alla memoria festival come Nature One ed Awakenings con i loro pacifici e festosi frequentatori, e non posso far altro che vergognarmi profondamente di essere Italiano.
Mi ci vuole ben un’ora e venti per poter entrare…ah già che ci sono vorrei tanto sapere cosa ci stavano a fare i vigili all’entrata se poi non hanno alzato un dito per cercare di dare un minimo d’ordine alla folla, cosa aspettavano che qualcuno collassasse in mezzo alla calca? Oppure doveva scapparci il morto calpestato? Davvero son proprio senza parole.
Unico merito dell’interminabile coda è l’avermi fatto perdere il Francese Dan Ghenacia in apertura, un Dj totalmente insulso incapace di una selezione personale ma che grazie a qualche santo in paradiso è finito nel giro del Circoloco di Ibiza, riuscendo così a vivere di luce riflessa.
Un fumo denso pervade la sala, si accendono le luci rosse, uomini col volto coperto invadono il palco inneggiando all’Underground: sono gli Interstellar Fuggitives from Underground Resistence capitanati da Mike Banks, ultimo fondatore rimasto del mitico collettivo.
Il loro live è sublime: il beat electro di derivazione Kraftwerkiana si incontra con l’hiphop di Afrika Bambaata passando per quelle melodie che hanno fatto grande il suono di Detroit.
Unica nota stonata sono i fischi della massa dei fans dei Krakatoa (il duo formato da Samuel dei Subsonica e Pisti n.d.r.), a dimostrazione che in Italia l’unica educazione musicale viene dalle suonerie dei cellulari.
E sono proprio i Krakatoa ad esibirsi subito dopo gli UR e stavolta tocca a loro subire i fischi e i cori degli adepti di questi ultimi, ed in genere di chiunque avesse più di 17 anni…
I Krakatoa sono il progetto portato avanti da quello che una volta era il cantante di una band che in dieci anni si è trasformata da gruppo interessante a boy band da inaugurazione di centro commerciale, Samuel, e da uno che se non fosse stato amico del suddetto cantante a quest’ora gli unici dj set che farebbe sarebbero nella migliore delle ipotesi in un bar di periferia vicino agli autoscontri (conosciuto personalmente anni dopo scopriremo che il suo fare il tamarro è solo un gioco e che anzi ha un’ottima cultura n.d.r.).
Le due superstar (negli atteggiamenti più che nei contenuti) iniziano un set di una banalità sconcertante. E non parliamo della tecnica sfoggiata al limite del ridicolo: sono riusciti a far gracchiare un impianto dal suono cristallino e a mettersi in mostra con grandi funambolismi del tipo togli e metti la cassa ruotando a casaccio le manopole per mezzora. I dischi proposti, invece, erano davvero brutti ma talmente brutti che coi miei amici ci siam domandati dove diavolo siano andati a prenderli.
Ma l’aspetto peggiore di tutto ciò è che questi due buffoni hanno suonato per due ore di fila nel peak time!! Ora un qualsiasi Dj degno di questo nome vedendo i nomi dei mostri sacri con cui avrebbe diviso il palco, si sarebbe quanto meno sentito in dovere di offrirsi per l’apertura/chiusura dello show lasciando a loro il ruolo da protagonisti.
Ma Samuel e Pisti forti di chissà quale ragione hanno ben deciso di essere loro l’attrazione principale, lasciando così al povero Derrick May (sempre un gran Signore..) l’ingrato compito di riportare la pista ad atmosfere più articolate e suggestive suonando appena un’oretta neppure al massimo delle sue capacità.
Il set di The Innovator (un bignami del suo set dell’ultimo Awakenings Detroit weekend) è comunque emozionante, ed il dancefloor ora finalmente libero dai ragazzini da il benvenuto ad un carichissimo Satcey Pullen, il quale si dimostra meno mentale del solito e picchia dall’inizio alla fine lasciando spazio soltanto a lisergici interludi di synth che tengono il pubblico con le mani al cielo in adorazione.
Il party si chiude alle sei e mezza e per quanto i ragazzi americani abbiano adempiuto in toto alla loro ardua missione, ci rimane un’amarezza altrettanto difficile da mandare giù. Ogni volta che in Italia si cerca di coinvolgere le grandi masse succedono sempre e solo guai: dalla folla disordinata che non rispetta la fila, alle risse, o ai tentativi di furto con tanto di coltello (questa sera non ci siam fatti mancare proprio niente, eh?!).
L’unica speranza sono le piccole situazioni dove la gente si muove per passione e non esclusivamente per i soldi. D’altronde lo dicevano già gli stessi Underground Resistence: “Keep it underground..”
Federico Spadavecchia